Due articoli dal manifesto del 22 e 23.
COMMENTO
Perplessità intorno all’Onda
Paolo Hutter
Quella in corso nelle università non è una palestra
politica generazionale, quindi possiamo polemizzare «da compagni» su
alcune impostazioni. Stiamo tutti sperando che il movimento degli
studenti ci tiri via dalle pozze autoreferenti del sinistrese e cosa
trovo nel documento welfare della Sapienza? Bus e treni gratis! Come 35
anni fa, non certo come nelle lotte dei pendolari 2008. Ai tempi di
Lotta continua incontravo gli studenti medi sardi in lotta per i
trasporti gratis. Ma quelli erano figli di pastori senza motorino,
dovevano fare 30 chilometri di bus per arrivare a scuola. Oggi gli
studenti hanno ovunque forti sconti e il problema sembra più quello
dell’efficienza del servizio. O dell’intermodalità con la bici. Alcune
delle conclusioni dell’assemblea nazionale dell’ «Onda» sembrano
incongrue, rispetto alla realtà che ho visto, dal vivo, in queste
settimane. Cosa c’entrano gli studenti a volte fin troppo «secchioni»
delle lezioni all’aperto, della didattica che non si interrompe, della
richiesta al preside del permesso di dormire in facoltà, del corteo
senza bandiere, con frasi come queste: «Tutto ciò permette di
individuare nell’università un terreno di lotta di particolare
importanza, a partire da cui produrre dei processi di generalizzazione
del conflitto.»? C’è uno stratega rivoluzionario che scruta dall’alto
dove concentrare i suoi sforzi? Il mio punto di vista è quello di un ex
militante del «lavoro politico» tra gli studenti degli anni ’70, e non
condivido tutta l’ enfasi sull’«abissale» differenza dell’attuale
movimento col ’68 e il ’77. Ora a leggere certe frasi sinistresi o
criptiche dei documenti della Sapienza sono spiazzato, le trovo più
vicine agli anni ’70, e mi chiedo quanto esprimano la realtà del
movimento.
«Si è sviluppato un dibattito articolato e aperto sulla
proposta dell’autoformazione: questa è una tra le varie pratiche
sperimentate per l’inflazionamento e il sabotaggio del sistema del
credito». Non so se possa essere giusto o importante superare il
sistema dei crediti formativi, né quanto sia praticabile farlo in
presenza di un sistema europeo di trasferimento dei crediti che è alla
base degli Erasmus, cioè della possibilità di scambio . Ma le «pratiche
sperimentate di autoformazione» come metodo per «sabotare
inflazionandolo» il sistema dei crediti chi le ha sperimentate? Quale
sabotaggio? In generale i 3 documenti sembrano rovesciare specularmente
la logica del governo nei confronti dell’università. Invece dei tagli e
delle privatizzazioni si propongono tanti soldi pubblici: per i
ricercatori, per i precari, per gli studenti, per farsi retribuire gli
stage, per ri-quinquennalizzare l’università, per le strutture. Questa
sì sembra essere una reale esigenza di massa degli studenti, anche se
viene descritta in termini molto simili a quelli usati dall’ala
economicista degli anni ’70, (il salario agli studenti lanciato da
Potere operaio) e resta lontana invece dal livello analitico,
alternativo ma pragmatico, di una controfinanziaria stile
Sbilanciamoci. Si preferisce parlare di autoriduzione dei cinema. ..
Nell’idea dei trasporti gratis, poi, non si fa i conti con la necessità
di contenere la mobilità e di ridurre le emissioni, per cui ogni
trasporto a motore ha un costo esterno. Del resto di territorio,
ambiente, risparmio energetico, risorse rinnovabili non c’è traccia in
questi primi documenti dell’Onda che dimenticano persino di parlare di
internet a banda larga (ancora assente in metà del paese) e di wi-fi
(assente quasi ovunque). Quello sì, internet, forse ha senso che sia
gratis…
SCUOLA
Il protagonismo delle maestre
Mario Sai
Una delle novità di questo prodigioso movimento in
difesa della scuola pubblica sono le maestre e i maestri delle
elementari scesi in piazza a difesa di un progetto educativo che è il
vero obiettivo dell’attacco del governo. È, quindi, necessario, nella
nostra discussione, capovolgere il punto di vista.
Sono i tagli del
ministro Tremonti a servire da copertura a una reazione in campo
educativo che ha i suoi punti di forza proprio in quegli atti simbolici
(il grembiulino, i voti, la condotta) rispetto ai quali il senso
comune, sia a destra che a sinistra, vede, invece, un rassicurante
ritorno al buon tempo andato. Anche sul «maestro unico» l’opposizione
politica ha fatto proprie le ragioni sindacali e di garanzia del
servizio per le madri lavoratrici, ma non la questione di fondo. La
scuola elementare italiana, che è tra le migliori del mondo, non piace
alla destra, perché in essa, nelle sue maestre e maestri, è operante
quell’insieme di culture di innovazioni pedagogiche e pratiche
educative che, sono nate dalla rivoluzione copernicana dell’«educazione
attiva»: mettere al centro l’attività spontanea, personale, produttiva
dei bambini; educare attraverso la relazione con l’ambiente e
l’esperienza pratica; dare un ruolo formativo all’attività manuale;
individualizzare il programma educativo per esaltare attitudini e
recuperare difficoltà di ciascuno.
L’abolizione del grembiule
ribadiva l’idea che la scuola non doveva essere una caserma, ma una
comunità, un modo di vita sociale. Le maestre e i maestri, soprattutto
dopo l’ingresso di tanti giovani con i concorsi degli anni ’70, nella
loro pratica quotidiana hanno cambiato profondamente il vecchio modo di
fare scuola: il lavoro di gruppo al posto della lezione dalla cattedra;
la biblioteca di classe, i quotidiani, i nuovi mezzi audiovisivi al
posto del libro di testo; i giudizi al posto dei voti. È stato un
processo lungo e difficile con protagonisti i maestri «sperimentatori»
e pedagogisti, laici e cattolici, associazioni, riviste, comitati di
quartiere e consigli di zona sindacali. La riforma dei programmi della
scuola elementare del 1985 fu il punto di arrivo di questo movimento
che faceva i conti con grandi trasformazioni sociali e di costume
(dalla conquista delle 40 ore con i contratti del 1969 all’ingresso
massiccio delle donne nel lavoro) e che aveva promosso una diffusa
sperimentazione di nuove pratiche educative e tecniche didattiche,
dalle «classi aperte» con più insegnanti che collaboravano tra loro
allo studio dell’ambiente e ai laboratori creativi.
Il tempo pieno,
la compresenza di più insegnanti nascono dentro queste pratiche. Con
esse si dà concretezza al bisogno di una scuola che renda liberi e
uguali; che «promuova» tutti nel senso della maturazione e della
consapevolezza; che dica basta all’individualismo, alla competizione,
al massacro della selezione scolastica che ribadisce con forza quella
sociale. Da qui nasce una nuova capacità di costruire socialità, di
includere i bambini immigrati come i «diversi» per problemi fisici,
psichici e sociali. Tutto questo complesso processo ha trovato un suo
riconoscimento nella legge n. 148 del 1990 che la signora ministro
Gelmini ha deciso di manomettere. E non ci consoli la possibilità – non
a caso sostenuta dalla Lega nord – che laddove ci saranno risorse e
richieste delle famiglie il tempo pieno rimarrà. In questo modo della
legge si vogliono salvare i suoi insuccessi. La condizione che i comuni
fornissero le strutture, a cominciare dalla mensa, ha fatto sì che il
tempo pieno si realizzasse solo nel 27% delle classi, in larga misura
al Nord (a Milano città il 96% delle classi è a tempo pieno). Oggi la
sinistra dovrebbe dire che è una priorità superare questa condizione.
Ci vogliono risorse perché finisca nel nostro paese lo scandalo per cui
i bambini che se lo possono permettere hanno pagate dalle famiglie le
attività pomeridiane e gli altri stanno davanti alla tv o per strada.
Solo così si può volgere in positivo l’altro punto debole della legge:
avere collegato la scelta di più insegnanti per classe molto al calo
demografico (i bambini delle elementari in 30 anni si sono dimezzati) e
poco all’arricchimento e all’ampliamento dell’offerta formativa.