meritocrazia


si fa un gran parlare di meritocrazia per quanto riguarda la direzione da prendere per riformare l’università.

nessuno mette in dubbio che su questo dovrebbe basarsi la selezione e la progressione dei docenti (facciamo lavorare chi è capace), ma un’altra cosa è richiederla per quanto riguarda una limitazione dell’accesso degli studenti al sistema formativo. copincollo una mail che avevo mandato tempo fa sul tema, sottolineo comunque come inevitabilmente università di massa e meritocratica (in questa accezione) non vanno di pari passo, quindi chi ci tiene vada dai suoi compagni di corso con medie basse e li inviti a disiscriversi perchè la loro presenza è causa di un abbassamento della qualità della didattica, oppure cominciamo a parlare di autodisiscrizioni (sì sono un po’ polemico).

ciao

michele

segue testo della mail:

noi sbagliamo a voler puntare sulla meritocrazia. perchè è una cosa che in sè
non vuol dire niente finchè non si specifica cos’è il merito, e poi parla di
potere (radice -kratos greca) che è una cosa con cui dobbiamo stare molto
attenti a confrontarci.
credo che quello di cui dovremmo portare avanti, imprescindibile, sia il
DIRITTO ALLO STUDIO, DI QUALITA’ E PER TUTTI. è un concetto più ampio, porta
con sè la meritocrazia (e diciamolo pure, ma spieghiamo che è conseguenza di un
altro principio) perchè nel momento in cui vuoi che la didattica sia di qualità
richiedi che il docente sia bravo e preparato; inoltre, evita quello che
secondo me è una cazzata colossale: cioè, tagliare agli atenei che funzionano
male. questa oggi viene intesa come una misura meritocratica, ma come si può
pensare che un ateneo che funziona male funzioni meglio riducendogli i fondi?
diritto allo studio è invece chiuderli (= bloccare una didattica di scarsa
qualità) e permettere a tutti (= abbattere i costi) di frequentare atenei
migliori dislocati lontano da casa. per fare un esempio.
accanto al diritto allo studio vi è il DIRITTO ALLA RICERCA LIBERA, cioè
niente imprese (=rimanere nel pubblico), niente caste baronali che decidono chi
e cosa, niente imbecilli stipendiati per fare un cazzo che rubano il posto a
gente brava e appassionata. su questo ritorna il discorso merito, ma solo se lo
uniamo al discorso sprechi: non potendo assumere tutti (=spreco) assumiamo solo
quelli bravi. peraltro il discorso sprechia priori non dovrebbe interessarci,
lo fa solo nell’ottica di aprirci al paese e dire: “non è giusto che la società
paghi anche per cose che non funzionano”, ma questo è già un allargare la
protesta alla presa di una coscienza sociale che poi secondo me non può
limitarsi a questo. spero di essere stato comprensibile. era giusto per fare un
po’ di ordine sul senso (secondo me) di quello che facciamo.
per questo partire lancia in resta da “meritocrazia” non mi piace, partiamo da
diritto allo studio e di ricerca e da lì traiamo le dovute conclusioni (se
saranno quelle, per ora sì direi). voi che ne dite?

  1. #1 di Guglielmo (il matematico) il 30 Novembre 2008 - 00:30

    Sarò telegrafico nei limiti del possibile.

    Prima di tutto rispondo a Federico per i questionari della didattica. C’è una commissione di facoltà che se ne sta occupando. In questa commissione dovrebbero esserci almeno un paio di rappresentanti di Sinistra Universitaria. Non ti so dire chi siano ma potresti provare a chiedere a Barbara, magari ne sa qualcosa.

    Per quanto riguarda la fatidica parola MERITOCRAZIA (ma non solo) vi elenco qualche punto un po’ alla rinfusa e con poche spiegazioni (sarei la persona più felice del mondo se qualcuno finalmente mi chiedesse di discuterne ma rinvio le polemiche ad un altro intervento):

    – diritto all’istruzione per tutti (dare la possibilità a tutti di frequentare l’università)

    – razionalizzazione delle sedi universitarie (meglio poche ma buone) e ovviamente incentivi alla mobilità degli studenti

    – migliorare i criteri di selezione dei docenti: se non hai pubblicazioni come prima firma (magari anche citate) non puoi essere assunto

    – trasparenza nei concorsi di ammissione ai dottorati e di assunzione

    – eliminare le assunzioni in blocco (quelle cose che creano i gap generazionali nel corpo docente)

    – incentivare la competitività tra i vari atenei (ovviamente non competitività sui bilanci ma sulla produzione di sapere, tipo pubblicazioni, convegni, seminari…etc.) per esempio stilando classifiche

    – premiare gli atenei di eccellenza (anche qui eccellenza nel senso della produzione di sapere) e incentivare il crearsi degli stessi

    – aumentare il numero e l’entità delle borse di studio agli studenti meritevoli e bisognosi

    – aumentare le tasse agli studenti fuori corso (magari di un fattore due)

    – favorire la nascita di campus universitari

    Spero di non avere sproloquiato troppo.

    Buonanotte

    guglielmo

  2. #2 di Federico il 29 Novembre 2008 - 12:37

    Appunto, ma noi stiamo partecipando alla riforma dei questionari a scienze, oppure la lasciamo a CL?

  3. #3 di pilo il 28 Novembre 2008 - 14:59

    cerchiamo di restare sulla meritocrazia universitaria.

    STUDENTI:
    per come la penso io, la meritocrazia non è il disiscrivere chi ha medie basse (ovvio..) ma permettere ai meritevoli di iscriversi, anche senza spese.
    (sì, se vogliamo possiamo aprire il discorso su come i “meritevoli” raramente arrivino da certe classi sociali, per discriminazioni di classe nell’istruzione. ritengo sia un ragionamento vicino al vero, ma per ora inaccessibile. il sistema è una merda, ci lavoreremo su.)

    quindi mi focalizzerei sul chiedere più borse di studio: un test PRIMA di iscriversi e soldi dati PRIMA a chi non li ha ma se li merita.

    DOCENTI:
    giusto che insegni chi è bravo, capace e appasionato e che se ne vada chi no.
    come si fanno a capire questi parametri?
    a parte la valutazione delle pubblicazioni, il modo più diretto che abbiamo sono i questionari, se fatti bene: modifichiamo le domande e le possibili risposte, aumentiamo la frequenza, rendiamo pubblici i risultati e, perchè no?, chiediamo una diversa retribuzione tra capaci e incapaci. (non è una follia: in inghilterra, se non sbaglio, è così).

    proponiamo queste modifiche in CCD, CDF, salcazzo: chi rifiuta ha la coscienza sporca.

  4. #4 di viblue il 27 Novembre 2008 - 23:02

    http://www.anarchaos.it/…wtopic.php?f=7&t=58

  5. #5 di viblue il 27 Novembre 2008 - 22:59

    Ho trovato per caso questo vecchio articolo di un sindacalista.
    Io (nonostante sia molto più a “sinistra” di lui, l’ho trovato interessante.Prova a leggerlo anche tu.Ciao!
    Viblue

    La meritocrazia come criterio di selezione degli individui al lavoro ritorna alla moda nel linguaggio della sinistra e del centrosinistra, dopo il 1989; ma prima ancora con la scoperta fatta da Claudio Martelli a un Congresso del Psi sulla validità di una società «dei meriti e dei bisogni». In realtà, sin dall’illuminismo, la meritocrazia che presupponeva la legittimazione della decisione discrezionale di un «governante», sia esso un caporeparto, un capo ufficio, un barone universitario o, naturalmente un politico inserito nella macchina di governo, era stata respinta.

    Era stata respinta come una sostituzione della formazione e dell’educazione, che solo possono essere assunte come criterio di riconoscimento dell’attitudine di qualsiasi lavoratore di svolgere la funzione alla quale era candidato. Già Rousseau e, con lui, Condorcet respingevano con rigore qualsiasi criterio, diverso dalla conoscenza e dalla qualificazione specializzata, di valutazione del «valore» della persona e lo riconoscevano come una mera espressione di un potere autoritario e discriminatorio.
    Ma da allora, con il sopravvento nel mondo delle imprese di una cultura del potere e dell’autorità il ricorso al «merito» (e non solo e non tanto alla qualificazione e alla competenza accertata) ha sempre avuto il ruolo di sancire, dalla prima rivoluzione industriale al fordismo, il potere indivisibile del padrone o del governante; e il significato di ridimensionare ogni valutazione fondata sulla conoscenza e il «sapere fare», valorizzando invece, come fattori determinanti, criteri come quelli della fedeltà, della lealtà nei confronti del superiore, di obbedienza e, in quel contesto, negli anni del fordismo, dell’anzianità aziendale.
    Nella mia storia di sindacalista ho dovuto fare ogni giorno i conti la meritocrazia, e cioè con il ricorso al concetto di «merito», utilizzato (anche in termini salariali) come correttivo di riconoscimento della qualificazione e della competenza dei lavoratori. E, soprattutto negli anni 60 del secolo passato, quando mi sono confrontato con la struttura della retribuzione, alla Fiat e in altre grandi fabbriche e ho scoperto la funzione antisindacale degli «assegni» o «premi» di merito; quando questi, oltre a dividere i lavoratori della stessa qualifica o della stessa mansione, finirono per rappresentare un modo diverso di inquadramento, di promozione e di comando della persona, sanzionato, per gli impiegati, da una divisione normativa, che nulla aveva a che fare con l’efficienza e la funzionalità, ma che sancivano fino agli anni 70 la garanzia del posto di lavoro e quindi la fedeltà all’impresa.
    Un sistema di inquadramento e di organizzazione del lavoro apertamente alternativo alla qualifica definita dalla contrattazione nazionale e aziendale.
    Ma molto presto questa utilizzazione dei premi di merito o dei premi tout court giunse alla penalizzazione degli scioperi e delle assenze individuali (anche per malattia), quando di fronte a poche ore di sciopero o alla conseguenza di un infortunio sul lavoro (mi ricordo bene una vertenza all’Italcementi a questo proposito), le imprese sopprimevano anche 6 mesi di premio.
    È questa concezione del merito, della meritocrazia, della promozione sulla base di una decisione inappellabile di un’autorità «superiore» che è stato cancellato con la lotta dei metalmeccanici nel ‘69 e con lo Statuto dei diritti del lavoro che nel 1970 dava corpo alla grande idea di Di Vittorio di dieci anni prima. Purtroppo una parte della sinistra, i parlamentari del Pci, si astennero al momento della sua approvazione, solo perché esclusa dalla partecipazione al Governo.
    Ma quello che è più interessante osservare è come, alla crisi successiva del Fordismo e alla trasformazione della filosofia dell’impresa, con la flessibilità ma anche con la responsabilità che incombe sul lavoratore sui risultati quantitativi e qualitativi delle sue opere, si sia accompagnato in Italia a una risorgenza delle forme più autoritarie del Taylorismo, particolarmente nei servizi, santificata non solo dal mito del manager che si fa strada con le gomitate e le stock options, ma dalla ideologia del liberismo autoritario. Con gli «yuppies» che privilegiano l’investimento finanziario a breve termine, ritorna così per gli strati più fragili (in termini di conoscenza) l’impero della meritocrazia.
    A questa nuova trasformazione (e qualche volta degrado) del sistema industriale italiano ha però contribuito, bisogna riconoscerlo, l’egualitarismo salariale di una parte del movimento sindacale, a partire dall’accordo sul punto unico di scala mobile, che ha offerto, in un mercato del lavoro in cui prevale la diversità (anche di conoscenze) e nel quale diventa necessario ricostruire una solidarietà fra persone e fra diversi, una sostanziale legittimazione alle imprese che hanno saputo ricostruire un rapporto diverso (autoritario ma compassionevole) con la persona sulla base di una incomprensibile meritocrazia.
    Non è casuale, del resto, che, di questi tempi, il concetto di merito, sinonimo di obbedienza e di dovere, abbia ritrovato un punto di riferimento nel sistema di promozione e di riconoscimento delle organizzazioni militari nel confronto del comportamento dei loro sottoposti.
    Le stesse osservazioni si possono fare per i «bisogni», contrapposti negli anni 60 del secolo scorso, alle domande che prevalgono nel vissuto dei cittadini nella società dei consumi. Era questa anche la convinzione di un grande studioso marxista come Paul Sweezy. Sweezy opponeva i «needs» (i bisogni reali, le necessità) ai «wants» (le domande, i desideri), attribuendo implicitamente ad uno stato illuminato e autoritario la selezione, «nell’interesse dei cittadini» fra gli uni e gli altri. Come se non fossero giunti i tempi in cui le domande e i desideri, pur influenzati dalla pubblicità, di fronte alle dure scelte e alle priorità imposte dalla condizione del lavoro e dalle lotte dei lavoratori si trasformano gradualmente in diritti universali, attraverso i quali, i cittadini, i lavoratori (non un padrone o uno stato illuminato), con il conflitto sociale, riuscirono a far progredire la stessa nazione di democrazia.
    Meriti e bisogni o capacità e diritti? Può sembrare una questione di vocabolario ma in realtà la meritocrazia nasconde il grande problema dell’affermazione dei diritti individuali di una società moderna.
    E quello che sorprende è che la cultura della meritocrazia (magari come antidoto alla burocrazia, quando la meritocrazia è il pilastro della burocrazia) sia riapparsa nel linguaggio corrente del centrosinistra e della stessa sinistra, e con il predominio culturale del liberismo neoconservatore e autoritario, come un valore da riscoprire. Mentre in Europa e nel mondo oltre che nel nostro paese, i più noti giuristi, i più noti studiosi di economia e di sociologia, da Bertrand Swartz a Amartya Sen, a Alain Supiot si sono affannati ad individuare e a riscoprire dei criteri di selezione e di opportunità del lavoro qualificato, capaci di riconciliare – non per pochi ma per tutti- libertà e conoscenza; di immaginare una crescita dei saperi come un fattore essenziale, da incoraggiare e da prescrivere, introducendo così un elemento dinamico nella stessa crescita culturale della società contemporanea.
    La «capability» di Amartya Sen non comporta soltanto la garanzia di una incessante mobilità professionale e sociale che deve ispirare un governo della flessibilità che non si traduca in precarietà e regressione. Ma essa rappresenta anche l’unica opportunità (solo questo, ma non è poco) di ricostruire sempre nella persona le condizioni di realizzare se stessa, «governando» il proprio lavoro.
    Perché questa sordità? Forse perché con una scelta acritica per la «modernizzazione», ci pieghiamo alla riesumazione – in piena rivoluzione della tecnologia e dei saperi – dei più vecchi dettami di una ideologia autoritaria.
    Forse qui si trova la spiegazione (ma mi auguro di sbagliare) della ragione per cui malgrado importanti scelte programmatiche del centrosinistra in Italia, per affermare una società della conoscenza come condizione non solo di «dare occupazione» ma anche per affermare nuovi spazi di libertà alle giovani generazioni, la classe dirigente, anche di sinistra, finisce per fermarsi, in definitiva, di fronte alla scelta, certo molto costosa, di praticare nella scuola e nell’Università ma anche nelle imprese e nei territori, un sistema di formazione lungo tutto l’arco della vita, aperto, per tutta la durata della vita lavorativa, come sosteneva il patto di Lisbona, a tutti i cittadini di ogni sesso di ogni età e di ogni origine etnica (e non solo per una ristretta elite di tecnici o di ricercatori, dalla quale è pur giusto partire).
    Speriamo che Romano Prodi che così bene ha iniziato questo mandato, sia capace di superare questa confusione di linguaggi, e di rompere questo handicap della cultura meritocratica del centro sinistra. Anche un auspicabile convegno sui valori, le scelte di civiltà di un nuovo partito aperto alle varie identità e alla storia dei partiti come della società civile, dovrebbe, a mio parere, assumere il governo e la socializzazione della conoscenza come insostituibile fattore di inclusione sociale.

    Il testo completo dell’ultimo articolo scritto da BRUNO TRENTIN per l’Unità

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