Dal manifesto milanese del 21, nazionale del 21 e nazionale del 20 gennaio.
ECOLOGIA · Perché funziona male l’esperimento su due ruote del Comune di Milano
Bike Sharing, il cimitero triste delle bici gialle rimaste al palo
Stefano Bettera
Ma dov’è finito il Bike Sharing? Molti si porranno
la stessa domanda vedendo quei cimiteri delle biciclette ferme nelle
stazioni di parcheggio di cui è stata disseminata Milano, dopo lunghi
mesi di lavori, e molti tira e molla, ricorsi al Tar compresi. La
verità è questa: nessuno o quasi le usa e dopo più di due mesi
dall’attivazione del servizio è quasi impossibile, anche cercandoli
attentamente, vedere in giro per la città ciclisti a cavallo delle bici
gialle e bianche con il logo Bikemi. Le ragioni sono sicuramente
molteplici. Prima fra tutte l’infelice scelta di far partire il
bikesharing a ridosso del Natale, in pieno inverno, con la città
imbiancata da interminabili nevicate, temperature rigide e molte
giornate di pioggia. In questo periodo dell’anno, poi, si sa, tutti
scelgono l’auto per trasportare regali e pacchettini, con buona pace
per la mobilità sostenibile. Se qualche coraggioso si è avventurato per
le strade, si è trattato certamente di un abitudinario del pedale, già
dotato del proprio mezzo, ovviamente, poco interessato ad usare il
nuovo servizio di Atm. Comunque, dopo mesi di dichiarazioni ed annunci
da parte del Comune e di Atm, sulla data di partenza e le dimensioni
del servizio, il 14 novembre c’è stata l’inaugurazione, in piazza San
Babila: disponibili 900 biciclette in poco più di 70 stazioni. Un po’
poco per il progetto originario che di biciclette ne prevedeva 5000,
disseminate in 250 punti. Perché? Silenzio assoluto. Ancora più vaghi i
tempi e i modi per l’allargamento del servizio. C’è da dire che i
recenti tagli di personale effettuati dal Comune hanno penalizzato
soprattutto il settore che si occupa della pianificazione rallentando
notevolmente le opere non considerate «prioritarie». Tutto sospeso a
parte la realizzazione dei grattacieli e buonanotte alla difesa strenua
dell’ambiente contenuta nel dossier di Expo 2015. Tornando al
bikesharing, la primavera del 2009, cioè fra due mesi, dovrebbe essere
il momento del rilancio promesso da tutti. Peccato, però, che di nuovi
cantieri per la posa delle rastrelliere in giro non se ne vedano e
salvo magie non se ne vedranno. Per scoraggiare i ciclisti, soprattutto
i turisti occasionali non interessati ad un abbonamento annuale, l’Atm
le ha proprio pensate tutte: ad oggi, infatti non sono attive le forme
di abbonamento ridotto (giornaliero e settimanale) pubblicizzate sul
sito. È ammesso solo un circuito di carte di credito per il pagamento
online. Soprattutto, non è possibile utilizzare il servizio dopo le 23,
impedendo a chi esce la sera di usare la bicicletta per tornare a casa.
Per tutte queste ragioni e se la percentuale degli utenti continua ad
essere quella di oggi, viene davvero da chiedersi che senso abbia
l’estensione del servizio. Gli ultimi dati ufficiali di Atm di fine
2008 parlano di 2.700 abbonati, oltre 3.000 prelievi e 43.000 visite al
sito web. Su una città come Milano e provincia stiamo parlando di un
risultato che sfiora il fallimento. Soprattutto se comparato con altre
città europee come Lione, Parigi o Barcellona dove sia il numero delle
biciclette che gli utilizzatori sono misurabili a decine di migliaia.
Non si può certo dire che il costo (25 la tessera annuale che dà
diritto all’utilizzo gratuito della prima mezz’ora) sia un deterrente.
Milano, pur non essendo una città di ciclisti come ad esempio
Amsterdam, ha visto crescere in modo esponenziale gli utilizzatori
delle due ruote. Eppure il bikesharing è, nei fatti, l’unico progetto
attuato tra quelli contenuti nel piano per la mobilità ciclistica che
ormai è lettera morta. Sono un miraggio le nuove piste ciclabili, più
volte promesse, anche all’interno di quelle misure a favore della
mobilità sostenibile che il provvedimento Ecopass avrebbe dovuto
sostenere sono un miraggio. Abbiamo visto tutti, a dicembre, come è
andata a finire e quale sia la vera sensibilità che il consiglio
comunale dimostra nei confronti delle proposte, ad essere onesti, anche
coraggiose, dell’assessore Croci. «Questa amministrazione – attacca
Eugenio Galli, presidente di Ciclobby – non ha alcun reale interesse a
trasformare Milano in una città ciclabile e a promuovere una vera
politica della mobilità sostenibile a Milano. La risposta è sempre la
stessa, che non non ci sono i soldi per realizzare nuove piste
ciclabili. Ma le piste ciclabili non risolvono il problema». Conclude
Galli: «Per favorire l’uso della bici basterebbe disegnare le piste
ciclabili sulle strade e farle rispettare da tutti. Ma la verità è che
questa visione non c’è e va contro gli interessi di molti. Un esempio?
Perché nella nuova Stazione Centrale appena inaugurata non è stato
previsto un parcheggio per le bici?» Una buona domanda. Che,
probabilmente, come sempre, non avrà risposta.?
Lezioni DI RAZZA
DISCRIMINATI
A TEMPO INDETERMINATO Alcune considerazioni sulla proposte di riforma
dell’università e della scuola primaria a partire da un saggio dello
studioso W.E.B Du Bois recentemente pubblicato
Enrica Rigo
In
un saggio del 1903 sul ruolo dell’educazione per il riscatto della
«razza Negra» W.E.B. Du Bois scriveva: «Formeremo uomini solo se
assumiamo a oggetto del lavoro nelle scuole la condizione stessa degli
esseri umani – l’intelligenza, la sostanziale solidarietà, la
conoscenza del mondo e le relazioni che gli uomini intrattengono con
esso – è questo il curricolo di quell’Alta Formazione su cui si devono
costruire le fondamenta di una vita reale» (The Talented Tenth, in The
Negro Problem, New York 1903). La presa di posizione dell’intellettuale
e leader afroamericano è accompagnata da un’instancabile polemica
contro qualunque ruolo salvifico del lavoro, implicito nell’opposta
visione impersonificata dall’altro leader nero a lui contemporaneo,
Booker T. Washington, secondo la quale agli studenti dovrebbe essere
insegnato «come guadagnarsi da vivere» (da Up to Slavery pubblicato
originariamente da Washington nel 1901). Per nulla invecchiata, la
riflessione di Du Bois è anzi profondamente in sintonia con l’Onda del
movimento che dalla scuola all’università ha investito, tra Settembre e
Dicembre, l’intero sistema formativo italiano criticando proprio quel
nesso tra formazione e mondo del lavoro che più di un decennio di
riforme ha tentato di far passare come desiderabile, oltre che come
ineluttabile necessità.
Diritti transitori
Prendere come spunto
di riflessione la polemica tra Du Bois e Washington consente di
tematizzare entro uno schema coerente anche un’altra proposta che ha
impegnato le cronache durante le ultime settimane, ovvero quella di
istituire classi «ponte» per i bambini immigrati nelle scuole primarie,
e di discuterla entro la questione più generale dell’accesso degli
stranieri ai diritti di cittadinanza e, in particolare, all’istruzione.
Nella mozione approvata in parlamento su proposta della Lega Nord – e
ingannevolmente ammantata di ragionevolezza politica da una relazione
introduttiva imbottita di dati – salta agli occhi la definizione della
misura quale politica di «discriminazione transitoria positiva». Senza
approfondire nel merito l’abuso con il quale viene utilizzata
l’espressione discriminazione positiva (che pur con delle ambivalenze
affonda le sue radici nella storia del movimento per i diritti civili
americano e nella tradizione della Critical Race Theory) è proprio
l’aggettivo «transitoria» che appare paradigmatico e inquietante. A
essere considerata transitoria non è infatti la discriminazione, che se
fosse introdotta perdurerebbe ovviamente a lungo, ma una condizione
intrinseca alle migrazioni stesse per cui i migranti sono sempre visti
come titolari di diritti pro tempore.
Nel caso specifico,
l’introduzione di un canale di accesso parallelo e subalterno
all’istruzione pubblica sarebbe addirittura giustificata da una duplice
condizione transitoria: quella di essere immigrati e per giunta
bambini. Questa transitorietà «destinata a protrarsi indefinitamente» –
per utilizzare la bella espressione del sociologo algerino Abdelmalek
Sayad – è carica di conseguenze sul piano politico, dal momento che ciò
di cui si è espropriati quando si viene inchiodati alla contingenza
presente è esattamente la possibilità di scegliere il proprio futuro,
come non a caso denuncia anche uno degli slogan del movimento dei mesi
scorsi.
Stanziali per legge
Questo approccio alle migrazioni
acquisisce un significato ulteriore se si considerano alcune linee di
tendenza che emergono dalle più recenti politiche europee e che puntano
a realizzare un modello che la Commissione definisce come circular
migration (una serie di articoli sull’argomento sono reperibili nel
sito www.carim.org/circularmigration). Non si tratta più della
«transitorietà» con la quale è stata gestita in molti paesi europei la
manodopera immigrata nel dopoguerra, per cui i «lavoratori ospiti»
erano incentivati a rientrare nei paesi di provenienza una volta
soddisfatto il fabbisogno di forza lavoro; tanto meno siamo di fronte a
una transitorietà che conduce virtuosamente verso la cittadinanza. Una
delle specificità del sistema della Blue card che la Commissione
europea vorrebbe introdurre per gestire a livello comunitario la
manodopera immigrata «altamente qualificata», e che la differenzia, per
esempio, dalla Green card statunitense, è esattamente quella di non
dare accesso alla cittadinanza né, almeno in prima battuta, alla
residenza permanente.
A ben guardare, è proprio in questo
dispositivo, pensato per attrarre tecnici e ingegneri formati in paesi
di economie emergenti come quella di Cina o India, che si possono
scorgere caratteristiche specifiche e esiti politici di una formazione
improntata a «rispondere in modo effettivo e puntuale alla domanda
fluttuante di lavoratori immigrati altamente qualificati (ed a
compensare le carenze di competenze attuali e future)» (si vedano la
relazione alla proposta di direttiva comunitaria e i lavori della High
Level Conference on Legal Immigration tenutasi a Lisbona nel settembre
2007). Il «premio» che i lavoratori altamente qualificati ottengono con
la Blue card è costituito, infatti, da un alto grado di flessibilità e
mobilità fisica nello spazio europeo, coniugata all’immobilità del
proprio status giuridico – e quindi sociale – di fronte ai diritti di
cittadinanza. In altre parole, l’artificiosa temporalità imposta
dall’ordinamento giuridico alle migrazioni acquisisce, in questo
contesto, il significato di gestione duratura del transito e della
circolazione di manodopera attraverso un dispositivo che differenzia
permanentemente l’accesso dei migranti ai diritti. Nessuno stupore,
quindi, che tra gli obbrobri giuridici già sperimentati dal sistema
possa essere concepita anche una «discriminazione transitoria positiva»
di cui i bambini dei migranti porteranno addosso i segni in permanenza.
Prima di tornare alle splendide pagine di Du Bois sull’eccellenza
che sola può salvare e far progredire le razze, è opportuno introdurre
un ulteriore elemento di riflessione. Per ottenere la Blue card, oltre
a una formazione altamente qualificata testimoniata da un diploma
riconosciuto, sarà necessario presentare un contratto di lavoro con una
retribuzione prevista di almeno tre volte superiore al salario minimo.
Ma che cosa accadrebbe se un illuminato liberale, convinto assertore
dell’autonomia contrattuale, decidesse di assumere come badante
un’astrofisica laureatasi in un’università dell’Unione Sovietica o come
giardiniere un raffinato linguista formatosi in qualche paese del Medio
Oriente e di pagarli il triplo del salario minimo? Simili casi non sono
certo previsti dalla direttiva che, prevedendo accessi separati alla
mobilità, si illude di poter ignorare e liquidare come una massa
indifferenziata di cittadini «illegali» i migranti vivono e lavorano
qui ricevendo anche meno del salario minimo.
Adulatori della mediocrità
La
domanda è certo posta in modo provocatorio, ma è contro l’incapacità di
vedere l’eccellenza che Du Bois dirige il suo sarcasmo più feroce:
ovvero, contro «I ciechi adulatori della Mediocrità che gridano
allarmati: queste sono eccezioni, guardate qui morte, disastri e
crimine – sono loro la regola compiaciuta!». Ed è sempre l’autore del
classico manifesto nero The Souls of Black Folk (New York 1903) a
ribattere che è stata proprio la stupidità di una nazione che ha
sistematicamente umiliato i talenti ad avere fatto della mediocrità la
regola. Una stupidità simile a quella per cui nelle università italiane
il numero di stranieri iscritti è pari al 2,2 %, contro una media Ocse
superiore al 7,5 % e che in paesi come Inghilterra e Germania raggiunge
punte percentuali a due cifre. Un dato, questo, senza dubbio da
imputare alle incredibili difficoltà delle procedure per ottenere un
visto per studio o per convertire un permesso di soggiorno per studio
in lavoro, ma specchio, altresì, dell’inadeguatezza di un’offerta
formativa che pur blaterando di flussi di capitale si ostina a chiudere
gli occhi di fronte a quelli umani. E ancora, la stessa stupidità che
mentre è intenta a proporre accessi subalterni all’istruzione primaria
non si accorge che le occupazioni e le mobilitazioni nelle scuole hanno
coinvolto istituti dove l’incidenza dei bambini stranieri è altissima,
e dove le loro famiglie sono impegnate, accanto alle altre, in difesa
della scuola pubblica. Perché, scrive ancora Du Bois: «Non abbiamo
diritto a stare in disparte in silenzio mentre si gettano i semi di un
raccolto di disastro per i nostri bambini, neri e bianchi».
INTELLETTUALI ISRAELIANI
Appello sul «Guardian»: per il bene della pace, boicottateci
«Noi,
cittadini israeliani, ci appelliamo ai leader europei: usate le
sanzioni contro le politiche brutali d’Israele e unitevi alle proteste
attive di Bolivia e Venezuela». Inizia così l’appello, pubblicato sul
quotidiano britannico Guardian, di una parte della sinistra israeliana.
«Facciamo appello ai cittadini europei: per favore aderite alla
richiesta delle organizzazioni per i diritti umani palestinesi –
appoggiata da oltre 540 cittadini israeliani
(www.freegaza.org/en/home/)-: boicottate le merci e le istituzioni
israeliane; prendete esempio dalle risoluzioni approvate dalla città di
Atene, Birmingham e Cambridge (Usa). Aiutatetici!». Tra i firmatari
dell’appello il prof. Rachel Giora (Tel Aviv University), il prof.
Vered Kraus (Haifa University), la dr. Anat Matar (Tel Aviv
University), il prof. Yitzhak Y. Melamed (John Hopkins University)
Michael Varshavsky e Sergio Yahni.