OUT OF TIME – Analisi e rivendicazioni


Pubblichiamo (in pdf e come testo) il volantone del collettivo sull’università, con un’analisi della situazione dell’università e una panoramica dalla legge 133/08 in poi, uno sguardo al mondo fuori, le rivendicazioni che interessano a noi studenti:

*impaginato come un 4 pagine fronte e retro: volantone uni ;

*impaginato normale: volantone

OUT OF TIME_ Cosa sta succedendo in università?

Ottobre 2010. Quando due anni fa gli studenti colorarono via Celoria col celebre murales “non c’è futuro senza cultura – giù le mani dall’università pubblica”, si peccò forse di ottimismo e superficialità. O forse non si era ancora alla situazione attuale. Assai meglio ci starebbe infatti: “non c’è cultura senza futuro”. Come a dire: indotti a una competitività sfrenata per l’ansia e l’urgenza di riuscire a garantirsi la possibilità di evitare una condizione precaria di esistenza, e cioè un futuro in cui nessuno sembra più credere, non ci stiamo accorgendo (figuriamoci reagire!) di come ci stiano togliendo proprio la cultura: ossia, la forma (o la forza?) dinamica della conoscenza, lo slancio in virtù del quale l’individuo innova e crea, secondo la propria individualità, a partire da quello che ha già in mano. Sostituita in troppi corsi di laurea da un apprendimento acritico, da un nozionismo finalizzato solo a formare dei tecnici competenti in uno dei campi specializzati necessari al mondo produttivo, sfornati come prodotti di una catena di montaggio…

Ricercatori e giovani. Inizio degli anni accademici: centinaia di corsi in tutti gli atenei italiani rischiano di non partire per la protesta portata avanti dai ricercatori universitari, che rifiutano di assumersi carichi didattici che per legge non sono tenuti a fare e che finora hanno svolto volontariamente. Con la loro dedizione hanno tenuto in piedi il sistema universitario, ma di fronte ai tagli di Tremonti ed al blocco del ricambio generazionale dei docenti previsti nella Legge 133/08, nonché alla Riforma universitaria della Gelmini (approvata dal Senato in luglio, deve ora passare alla Camera), hanno deciso di dire basta. Nella “riforma” infatti è implicito lo screditamento sociale ed economico del loro ruolo, già dal 2005 (ddl Moratti) messo in esaurimento (non verranno più assunti ricercatori a Tempo Indeterminato), che è sostituito da una figura a Tempo Determinato, con contratti di massimo 3+3 anni senza alcuna certezza di essere poi assunti definitivamente, direttamente come professori associati (in una guerra tra poveri tra TD e TI che obbligherà tutti ad essere sempre più “produttivi” secondo parametri arbitrari, anziché preoccuparsi di fare un lavoro serio e di qualità). La messa ad esaurimento del ruolo del ricercatore TI istituzionalizza insomma il fatto che didattica e ricerca siano portati avanti da pochi docenti di ruolo e da una massa di precari. Se si considera che sempre più fondi verranno dai privati e che un contratto precario significa dover sottostare al volere dei baroni (il passaggio ad associato sarà proposto dagli ordinari e deliberato dal CdA), con buona pace di chi dice che questa riforma arginerebbe tali forme di potere, ben si capisce quale sarà la libertà di coscienza dei futuri ricercatori! Infine chi studia ora per fare poi ricerca nel migliore dei casi rischia di trovarsi oltre i 30 anni senza garanzie sul proprio futuro! Questo vuol dire che a intraprendere la carriera accademica in Italia saranno solo quanti potranno permettersi economicamente questo rischio!

Governance. Se da un lato i pesanti tagli ai finanziamenti pubblici obbligano gli atenei a ricercare fondi presso i privati svendendo settori di ricerca o il proprio patrimonio immobiliare (pubblico, cioè di tutti!), dall’altro l’adeguamento dei meccanismi di governance previsto nel ddl Gelmini permette che lo scambio sia completo: i privati entrano direttamente nei consigli di amministrazione (per almeno il 40% sul totale dei componenti) nei quali viene accentrato il potere decisionale, e parallelamente viene limitato il peso delle altre componenti che non saranno neanche più elettive (addirittura non è prevista una rappresentanza dei lavoratori!). Infischiandosene della democrazia interna degli atenei, dell’autonomia dell’istituzione universitaria (soggetta agli interessi dei privati presenti in CdA), della libertà di ricerca e di insegnamento che un’università pubblica dovrebbe garantire!

Diritto all’educazione. La riforma Gelmini introduce una mentalità aziendale basata su di un’interpretazione deviata del concetto di “meritocrazia” e sulla competitività, dando perfettamente l’idea del voler ridurre a processo produttivo la vivacità culturale degli atenei. Riteniamo che l’istruzione sia un diritto fondamentale la cui accessibilità deve essere garantita a tutti, indipendentemente dai vantaggi della condizione economica e dalla disponibilità a inseguire i ritmi che la tachicardia del 3+2 impone, senza tempo per sviluppare criticità rispetto alla materia di studio o intraprendere anche esperienze di crescita diverse. L’istituzione del fondo per il merito (aperto alle influenze dei privati) slegato dal reddito trasforma il “diritto allo studio” da importante strumento sociale in una sorta di premio: il reddito torna ad essere l’unica forma di selezione per lo studio; parallelamente il potenziamento del prestito d’onore sposta l’erogazione di fondi ai bisognosi verso un modello privato che attraverso il debito ipoteca il futuro economico degli studenti.

Ci chiediamo che meritocrazia sia quella che differenzia i finanziamenti agli atenei (con criteri discutibili) provocando pesanti ripercussioni su un sistema nazionale che dovrebbe essere ovunque di qualità, anziché sempre più diviso tra atenei di serie A e di serie B (peraltro impossibilitati a fare ricerca). Vera meritocrazia sarebbe invece quella che impedisce l’assegnazione di cattedre per parentela anziché per capacità.

L’immediata conseguenza di blocco del turn-over e tagli è l’impossibilità di attuare interventi adeguati per garantire il diritto allo studio (mense, alloggi, trasporti, borse di studio…) e l’abbassamento di quantità e qualità della didattica: così facendo si andrà inevitabilmente verso una dequalificazione (che sta già provocando un calo delle immatricolazioni) dell’università pubblica, la quale vedrà così il suo ruolo svilito a quello di fabbrica di laureati di serie B, lasciando in mano a pochi poli di eccellenza (privati e costosi) e a lauree magistrali a numero chiuso il compito di formare la nuova classe dirigente. In una perfetta logica di mercato, si risponde all’accesso di massa all’università differenziando la qualità dei titoli di studio. Sarà un caso infatti che alle aziende italiane tanta gente ben istruita NON serve, e che secondo il ministero il 3+2 ha fallito perché troppi studenti non vanno a lavorare dopo la laurea triennale?

Proviamo a ipotizzare qualche altra conseguenza, previsioni che già si stanno avverando: taglio selvaggio dei corsi senza distinzioni, soprattutto negli atenei medi e piccoli e nelle sedi decentrate, la chiusura di interi settori disciplinari e il licenziamento della maggioranza dei docenti precari, sostituiti con il lavoro gratuito dei dottorandi e la moltiplicazione degli stages affidati a “volontari”; drastica riduzione dei bienni magistrali e dei dottorati, concentrati in poche sedi e sostituiti da master a pagamento; aumento delle tasse studentesche.

Lo smantellamento della mensa universitaria di via Golgi, avviato lo scorso anno dal Politecnico e contrastato da una lunga lotta degli studenti e dei lavoratori della mensa stessa, è del resto la dimostrazione di quanto conti il diritto allo studio per i vertici universitari.

FLASHBACK

Sono passati più di due anni da quel fatidico 21 agosto 2008, il giorno in cui entrò in vigore l’ormai celeberrima Legge 133/08. Una legge che in soli due articoli, gli art. 16 e 66 (ispirati dall’idea scellerata che la cultura e l’istruzione siano una spesa, non un investimento e un patrimonio irrinunciabile per la società), poneva le basi per la dismissione totale del sistema universitario pubblico, imperniata su tre pilastri:

tagli smisurati (il 20% in 5 anni) del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) delle Università pubbliche (il fondo che permette alle Università di pagare gli stipendi, finanziare la ricerca ed effettuare la manutenzione degli immobili), al punto da rendere impossibile anche la semplice gestione (figuriamoci lo sviluppo!) di molti atenei che si ritrovano coi conti in rosso; il primo risultato è un abbassamento della qualità della didattica e della ricerca, perché gli atenei devono risparmiare su strutture e attrezzature per riuscire a sopravvivere.

–         il blocco del turn-over (ricambio “generazionale”) di professori e ricercatori (1 assunzione ogni 5 pensionamenti nel triennio 2009-2011, 1 ogni 2 nel 2012); ciò diminuisce drasticamente la possibilità per i giovani di accedere alla carriera universitaria (già del tutto insufficiente, come testimoniato dal crescente fenomeno di “fuga dei cervelli” ) e per i ricercatori di diventare professori (e quindi di assumere il ruolo che compete al carico didattico a loro attribuito), cristallizzando ulteriormente le sacche di potere baronali; aumenta il rapporto studenti/professori (già abbondantemente al di sopra della media europea).

–         possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazioni di diritto privato (e quindi di privatizzare l’intero patrimonio, immobiliare e non) mediante una semplice votazione del Senato Accademico, eventualità che permetterebbe di alzare a dismisura le tasse studentesche (che per legge non possono superare il 20% dell’FFO nelle università pubbliche).

In risposta a un poderoso movimento universitario sviluppatosi nel coso dell’autunno, l’8 gennaio 2009 la Camera approva, con voto di fiducia, la conversione in legge del DL 180 sull’università. Sembrava solo un contentino, in realtà è molto peggio: contiene infatti provvedimenti “meritocratici” che sanciscono di fatto creazione di atenei di serie A e di serie B, con una conseguente lesione del diritto allo studio sancito dalla Costituzione. Si prevede infatti di differenziare parte dell’assegnazione delle risorse in base a non meglio precisati parametri di merito degli atenei, imponendo il blocco totale del turn-over per gli atenei non virtuosi. In tal modo a rimetterci sono ancora una volta gli studenti ed i precari, colpiti nel presente dai tagli e nel futuro dal blocco delle assunzioni.

Il 24 luglio 2009 il Consiglio dei Ministri ufficializza l’assegnazione del 7% dell’FFO (Fondo Finanziamento Ordinario, 525 milioni di euro) alle università considerate “virtuose”. L’Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca) ha il ruolo centrale di definire i criteri di valutazione degli atenei e quindi di differenziazione del fondo. I criteri individuati fanno sostanzialmente riferimento alla qualità della ricerca, all’inserimento nel mondo del lavoro dei laureati, alle collaborazioni delle università con enti pubblici e aziende private e alla capacità degli atenei di attrarre finanziamenti esterni. Ovviamente non traspare chiaramente che resterà a galla chi saprà accaparrarsi più fondi da parte di aziende e privati, svendendo la formazione e la ricerca al miglior offerente. Nello stesso “pacchetto università” di luglio si tratta inoltre il taglio dei corsi inutili, intento di per sé lodevole, se non fosse che questi vengono selezionati solo sulla base dei pochi iscritti e della non rispondenza alle richieste del mercato del lavoro!

Il 4 settembre viene pubblicata la direttiva 160: “Ulteriori interventi per la razionalizzazione e qualificazione dell’offerta formativa nella prospettiva dell’accreditamento dei corsi di studio”, che clamorosamente riconosce il fallimento integrale del Bologna Process (il processo europeo di armonizzazione dell’istruzione superiore) e del sistema 3+2 in Italia e “invita caldamente” a ridurre ulteriormente le spese, nonostante le risorse siano già scarsissime! C’è anche un pensierino per i baroni: i docenti potranno continuare a insegnare oltre l’età pensionabile, e alle università che si terranno il barone di turno sarà riconosciuto il risparmio sugli stipendi e sui contributi, con buona pace di turn-over e precari!

A fine ottobre 2009 il consiglio dei ministri approva la prima versione del ddl Gelmini, che giungerà sostanzialmente inalterato al Senato dove viene approvato a fine luglio 2010. Il ddl si compone di tre distinti titoli, riguardanti la governance d’ateneo, la promozione del “merito”, il reclutamento dei docenti. I punti chiave sono:

*accentramento dei poteri nelle mani del Rettore (che non potrà rimanere in carica più di 8 anni) e del CdA che avrà un massimo di 11 membri non eletti, una parte dei quali esterna all’università;

*le facoltà potranno essere al massimo 12 per ateneo e i settori scientifico-disciplinari, attualmente 370, saranno dimezzati; possibilità di federare università vicine;

*abilitazione nazionale per diventare ordinari e associati, posti poi attribuiti con procedure pubbliche di selezione bandite dalle singole università; viene abbassata di 2 anni l’età pensionabile dei professori (da 72 a 70 per gli ordinari, da 70 a 68 per gli associati);

*ricercatori: viene confermata la messa ad esaurimento del ruolo del ricercatore a tempo indeterminato (prevista dal ddl Moratti del 2005), le cui funzioni saranno sempre più assunte da figure precarie;

*le Università che hanno conseguito stabilità e sostenibilità di bilanci potranno, d’intesa con il ministero dell’Istruzione, sperimentare una governance flessibile, con propri modelli organizzativi;

*sara’ costituito un fondo nazionale per il merito al fine di erogare borse di studio e prestiti d’onore (secondo criteri non basati sul reddito!), aperto alla partecipazione dei privati per quanto riguarda stanziamento e indirizzo dei fondi; delega al Governo per riformare la legge sul diritto allo studio, d’intesa con le Regioni, con l’obiettivo di spostare il sostegno direttamente agli studenti.

Pur con alcune positive novità che recepiscono necessità reali del sistema universitario, il ddl si inserisce perfettamente nel solco dell’adeguamento dell’università al mercato neoliberista.

OLTRE L’UNIVERSITA’

Sono anni ormai che viene posta sistematicamente sotto attacco la dimensione pubblica e comune della società, sia culturalmente sia fattivamente. Il risultato (o lo scopo) è il demandare sempre più ai privati, e quindi al libero mercato, i pilastri essenziali della vita comunitaria, siano essi concreti (servizi come i trasporti, la sanità o le risorse idriche) o conquiste come i diritti sul lavoro. Vale a dire: profitti per pochi anziché benessere per tutti.

Ci siamo già occupati di beni comuni: dalla lotta contro la chiusura della mensa di via Golgi (la più grande mensa di Cittàstudi, erogatrice di un servizio che sarà ora demandato alla ristorazione privata) abbiamo allargato il discorso all’attualissima privatizzazione delle risorse idriche, ma lo stesso discorso si può fare per i trasporti (locali e nazionali), la sanità, i territori, gli spazi urbani di aggregazione… In qualunque ambito la logica del profitto e della competitività si è sostituita alla volontà, politica e sociale, di garantire un servizio o un diritto, si è assistito a un calo della qualità e un aumento dei costi per i cittadini. E a chi ci dice che tutto questo è stato fatto per ridurre “gli sprechi” rispondiamo che i veri sprechi sono ben altri, a cominciare dalle costosissime missioni di guerra in cui il nostro paese è costantemente coinvolto, e che, certamente, il comparto pubblico potrebbe essere più efficiente, ma questo non vuol dire che dev’essere dismesso lasciando così la collettività tutta senza diritti fondamentali.

Non fanno eccezione scuole e università, considerate un costo e non una risorsa a cui affidare il miglioramento delle condizioni di vita dell’intera popolazione, la sua crescita culturale e la formazione delle nuove generazioni, che le riforme in atto stanno definitivamente adeguando alle necessità produttive del mondo industriale odierno ed alla necessità, di chi detiene il potere, di controllare chi invece le decisioni le subisce, anziché preoccuparsi di qualità e accessibilità.

Ma non finisce qui. Nelle ultime settimane abbiamo assistito ad un attacco frontale ai diritti sul lavoro, portato avanti congiuntamente da Fiat, Confindustria e da esponenti del Governo. Per quanto la precarietà e il lavoro nero dei migranti (molti volutamente tenuti in situazioni di clandestinità e quindi senza diritti) già fossero un ricatto esistenziale anche per i lavoratori “stabili”, a partire dalla Fiat si sta ora dichiaratamente cercando di riscrivere quelle che sono le relazioni tra Capitale e Lavoro, negando diritti fondamentali (diritto allo sciopero, alla malattia, alla sicurezza sul lavoro, giusto per citarne alcuni) dati per acquisiti in una società moderna come vorremmo fosse la nostra. Questo scempio avviene nell’ottica di rendere competitive le aziende con quelle dei paesi dove questi diritti ancora non sono stati conquistati. Al grido di “o così o a casa” viene smantellata ogni conquista sindacale e sociale. Nei fatti stiamo assistendo ad un appiattimento mondiale verso il basso dei diritti e della dignità dei lavoratori, alla globalizzazione della precarietà e del ricatto. Nel nostro paese questo si sta concretizzando con l’attacco al contratto nazionale e allo Statuto dei lavoratori, che garantiscono al lavoratore di non essere solo, e quindi più debole, nel momento in cui si tratta di lottare per garantirsi la dignità e la sussistenza.

Le operazioni sull’università si inseriscono perfettamente in questo quadro (che è tutt’altro che un’anomalia italiana), e trovano non a caso il plauso della Confindustria, soddisfatta di trovarsi la strada spianata nell’avere mano libera in una università sempre più incline ad anteporre le esigenze delle aziende al diritto allo studio ed alla crescita culturale della popolazione.

In un panorama di generale attacco a diritti e libertà fondamentali (lavoro, beni comuni, libera circolazione), si va quindi verso un’università sempre più selettiva e sede di un sapere acritico, finalizzata solo a formare, in un doppio binario di alta e bassa formazione, dirigenti o tecnici specializzati necessari al mondo produttivo. Istruzione di qualità significa anche l’apertura verso una didattica che superi gli ambiti tecnici della conoscenza e stimoli la formazione di una cultura critica nell’individuo, attraverso anche la partecipazione diretta al processo di apprendimento. Vogliamo un’università in cui gli studenti siano soggetti attivi e protagonisti, che sia una risorsa culturale per il territorio e un bene comune per la collettività attraverso la libera circolazione (non commercializzata) dei risultati della ricerca e la dimensione pubblica dei saperi.

È necessario però che la protesta universitaria acquisisca una visione globale e si saldi alle lotte nei territori e sul lavoro.

RIVENDICAZIONI

Si deve innanzitutto fermare l’iter parlamentare del ddl Gelmini e ripristinare le condizioni finanziarie per consentire le attività didattiche e di ricerca dell’Università Pubblica, che deve essere riconosciuta come loro sede primaria.

TAGLI
Ci opponiamo al tentativo del governo di dequalificare istruzione e ricerca pubbliche in favore delle strutture private. Chiediamo l’abolizione dei tagli all’FFO, del blocco del turn-over e della possibilità di privatizzazione degli atenei introdotti con la legge 133/08. Si prevedano invece provvedimenti a lungo termine per: 1) un piano di rifinanziamento che punti a garantire un’istruzione accessibile a tutti, omogenea e di qualità su tutto il territorio nazionale, e sottragga ricerca e diritto allo studio al ricatto dei finanziamenti privati vincolati; 2) un’indagine dei reali sprechi in ogni singolo Ateneo, intervenendo poi per risolvere le criticità, fino all’eventuale chiusura degli atenei minori sorti per ragioni clientelari, previa garanzia per il territorio di adeguati interventi per la mobilità studentesca.

Taglio dei finanziamenti pubblici alle strutture private e alle spese militari e loro ridistribuzione al sistema pubblico.

GOVERNANCE
Chiediamo una governance democratica che non accentri la direzione dell’ateneo nelle mani del Rettore e del CdA, ma preveda un’equa presenza di tutte le componenti (docenti, studenti, personale tecnico-amministrativo), elettiva, negli organi decisionali, senza la partecipazione di membri esterni che sono un’ipoteca sulla libertà di didattica e ricerca.

Chiediamo più trasparenza rispetto alla gestione delle risorse e in materia di reclutamenti e progressioni di carriera, che devono seguire dalla valutazione delle attività di didattica e ricerca svolte. Deve essere dichiarata l’incompatibilità tra docenza e attività di libero professionista esterna all’università, qualora comporti non maggiore competenza, ma un minore tempo dedicato a didattica e ricerca o l’utilizzo personale delle risorse d’ateneo. Appoggiamo la proposta dei ricercatori di istituire un ruolo unico della docenza nel quale confluiscano, con pari diritti, quanti svolgano tale attività.

Proponiamo il pensionamento obbligatorio dei docenti a 65 anni, con la possibilità di continuare a coprire a titolo gratuito incarichi di docenza e ricerca in università, ma senza responsabilità amministrative. Questo per liberare risorse che favoriscano l’immissione in ruolo dei giovani ricercatori e sfavorire il cristallizzarsi di forme di potere anomale.

DIRITTO ALLO STUDIO (e non diritto alla laurea!)
Devono essere previste su tutto il territorio nazionale adeguate politiche di diritto allo studio che garantiscano ai privi di mezzi la reale possibilità di accesso all’istruzione universitaria pubblica, fuori da ogni falsa retorica sul “merito”, fino ai più alti livelli (abolizione quindi del numero chiuso alle lauree magistrali). Chiediamo l’abbassamento delle rette e l’erogazione di borse di studio sulla base del reddito (non del merito), al posto dell’incentivazione dei prestiti d’onore, attraverso i quali il governo (che viene delegato) vuole cambiare la natura sociale degli interventi di diritto allo studio.

Devono essere incentivate le politiche locali di supporto al diritto allo studio, con una gestione pubblica dei servizi (per evitare cali di qualità e trasparenza della gestione), in particolare: la messa a disposizione di alloggi studenteschi, in numero tale da permettere l’accesso ad una larga maggioranza degli iscritti con affitti calmierati e variabili in base al reddito; l’apertura di mense all’interno degli atenei, con buoni pasto da elargire in base al reddito; agevolazioni per i trasporti pubblici, in particolare a quegli studenti che vengono da altre città, per favorire una vera mobilità studentesca; agevolazioni per eventi culturali; l’accesso 24h/24 agli spazi universitari pubblici come aule e biblioteche.

PRECARIETA’
L’università si sta adeguando alla tendenza del mondo del lavoro a ricorrere sempre più al lavoro precario e, quindi, incerto e ricattabile. Rifiutiamo in toto questa logica e il tentativo di precarizzare in massa la didattica, la ricerca e l’amministrazione universitaria, penalizzando i giovani che vogliono entrare in università. Vogliamo un reddito sociale minimo per tutti e l’istituzione di un’unica figura pre-ruolo adeguatamente retribuita, con reali garanzie per il futuro.

La lotta alla precarietà riguarda anche il mondo del lavoro al di fuori dell’università: è l’attacco generalizzato a tutti i diritti, di cui noi saremo i primi a fare le spese.

È in gioco il nostro futuro di studenti oggi e di lavoratori domani. E` il momento di riprendere parola.

CON I TAGLI NON SI RIFORMA – IL CAMBIAMENTO PARTE DA NOI

IL NOSTRO TEMPO E` QUI E COMINCIA ADESSO

Collettivo Citta`Studi

retazione@libero.it

http://cittastudi.noblogs.org

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