Que se vayan todos / Make the rich pay!


Cominciano ad essere elaboati i decreti attuativi della legge 240/2010 (“riforma” Gelmini, qui il testo definitivo). Unimi sta nominando – in modi tutt’altro che democratici e trasparenti ed escludendo alcune categorie – la commissione che dovrà riscriverne lo statuto secondo i dettami della riforma.

Dopo la giornata del 28 gennaio, sciopero nazionale dei metalmeccanici indetto dalla fiom e sciopero generale indetto dai sindacati di base (qui il volantino del Collettivo CittàStudi), che ha visto scendere in piazza in tutta Italia studenti e lavoratori, continuano nelle città le lotte dal basso degli studenti, dei precari e dei ricercatori per un’università diverse. Lotte che evidenziano sempre più il proprio legame con le esperienze di altri paesi, da Londra alla Tunisia all’Egitto dove sono in prima linea i giovani e gli universitari.

A Pavia gli studenti liberano uno spazio cittadino, a Milano il preside di Scienze Politiche fa sgomberare dalla polizia, per la seconda volta, uno spazio occupato dagli studenti in università.

Bisogna continuare ad organizzarsi e resistere!

SIAMO ALLA RICERCA DEL NOSTRO FUTURO E CE NE STIAMO OCCUPANDO

LEGGI

*Studenti e Capitale di Piero Bevilacqua a proposito dei trend europei nelle politiche sull’università

*E la lotta di classe si sposta tra i banchi , di Marco Lodoli (Repubblica)

*le cifre esatte dei tagli all’università

*la piattaforma del Coordinamento Precari Università (nazionale) in merito alla riscrittura degli statuti d’Ateneo

*verso il meeting europeo delle lotte universitarie >> 11-13 febbraio, Parigi

*autonomia-mutualismo-autoformazione: contributo degli studenti pavesi

*Articolo sul movimento studentesco dell’autunno (qui in pdf: editoriale ):

I nodi vengono sempre al pettine. L’attacco generalizzato ad ogni diritto, dal lavoro ai territori all’istruzione, ci ha consegnato un autunno ricco di conflitti sociali, all’interno del quale gli studenti hanno giocato un ruolo da protagonisti, con novità significative rispetto alle esperienze precedenti.

Bisogna innanzitutto rimarcare che il movimento studentesco di quest’anno si è posto come soggetto sociale a tutto tondo, irrompendo sullo scenario politico non come il solito “popolo della scuola pubblica”, ma come l’urlo di rabbia di una generazione che si sta vedendo spogliare di ogni diritto e ogni garanzia. Tra gli universitari si fa largo la consapevolezza che la precarietà è una condizione che non finirà con il guadagno del titolo di studio, che il modello di università che si è fatto largo negli ultimi 20 anni è funzionale a questa precarietà, che questo meccanismo si inserisce in una depredazione generale dei diritti in atto a livello – almeno – europeo.

Un altro importante elemento di novità è la percezione della dimensione transnazionale della condizione giovanile e quindi della lotta, finora pressoché assente dalla scena italiana, sulla quale sicuramente ha influito l’eco delle rivolte londinesi contro l’aumento delle tasse universitarie, degli scioperi generali in Francia e in Grecia, dell’emergenza studentesca in tutta Europa, dovuta alle comuni politiche sull’università (il Processo di Bologna) e alla comune spoliazione di diritti nel contesto della crisi.

In questo scenario l’approvazione del ddl Gelmini si può leggere in due modi: da un lato costituisce sicuramente una sconfitta politica per gli studenti sul piano della forza che si è potuto mettere in campo; dall’altro dimostra inesorabilmente l’ormai abissale distanza tra la politica di palazzo, sorda e chiusa in giochetti di potere, e il malessere di una società che si esprime dove e come può. Una distanza evidente anche per quanto riguarda la cosiddetta opposizione parlamentare, che sale sui tetti insieme a studenti e ricercatori e all’ultimo momento rinuncia a fare ostruzionismo contro l’approvazione definitiva della legge. Un’opposizione che sposa in pieno la causa delle università in rivolta ma solo fintantoché questa resta una protesta pulita e sorridente da cartellone elettorale, cavalcabile da chi non riesce ad essere classe dirigente nemmeno del proprio partito; ma subito si grida, con una campagna mediatica portata avanti anche atraverso grandi firme (come Saviano), ai provocatori e ai “black block” da isolare quando lo scontro diventa spontaneo e reale (come successo a Roma il 14 dicembre). Senza capire che l’esplosione di rabbia di Roma è stata proprio degli stessi studenti che in altri momenti avevano espresso la protesta con altri metodi, e non era dunque più possibile la classica divisione in “buoni” e “cattivi”, con la quale chi ne è fuori cerca di analizzare ogni movimento.

La vastità delle tematiche portate avanti dagli studenti e la capacità di interlocuzione con il mondo del lavoro, i comitati in difesa dei beni comuni e dei territori e tutti gli altri soggetti dell’opposizione sociale, basta però a ridimensionare la sconfitta del voto del 23 dicembre.

L’orizzonte di lotta aperto in questi due mesi, la consapevolezza acquisita, l’immaginario frutto anche della grande rivolta di Roma difficilmente scompariranno col capodanno. La sfida è capire come declinare nella pratica un percorso che non può più limitarsi a richiedere un’università diversa, ma deve prendersi la responsabilità di ricomporre attorno alla questione del futuro negato ai giovani la rabbia sociale contro le politiche antipopolari del governo, contro un sistema che fa pagare ai deboli le proprie iniquità strutturali.

La grande manifestazione di Roma, che ha visto protagonisti gli studenti al cui fianco hanno partecipato lavoratori, comitati di cittadini e realtà autorganizzate, ne è solo l’esempio più lampante. Anche a Milano sia le assemblee sia le piazze hanno visto la spinta a creare un fronte comune tra diversi soggetti sociali (lavoratori e precari intervenuti nelle università, cortei coi migranti…).

Bisogna però dire da subito che né le lotte sui nodi del ddl, né quelle per un’università davvero diversa, che da anni portiamo avanti con iniziative di autoformazione e di lotta, si fermeranno. L’entrata in vigore della “riforma” Gelmini non conclude nulla: si spostano su ciascun ateneo le vertenze legate alla governance (ogni ateneo deve riscrivere uno statuto) e al precariato (si tratta di creare rapporti di forza tali da imporre che il ricorso al precariato sia minore possibile), mentre restano su base nazionale la questione dei finanziamenti e le questioni legate a diritto allo studio e “merito” (è infatti tutto in delega al governo). Mancano in generale una lunga serie di decreti attuativi che questo debole governo non sarà probabilmente in grado di garantire, soprattutto in tempi utili. Per non parlare di tutti gli scenari possibili diversi per ciascun ateneo, dal commissariamento all’aumento delle tasse studentesche, dalla riduzione dei servizi all’ingresso di banchieri e politici nei CdA, a tutta la casistica immaginabile.

In questi mesi si sono aperti anche spiragli di critica seria e radicale al modello di università attuale, dettato dal processo di Bologna, al servizio del mercato, della produzione, dell’immobilismo sociale, che non può essere l’università dei giovani e degli studenti. È cresciuta la consapevolezza dell’importanza strategica dell’università per la produzione industriale, la gerarchizzazione sociale, il riprodursi dell’ideologia “di sistema”: non si tratta più quindi di difendere l’università pubblica, ma di capire che ruolo può giocare nella sottrazione o nel guadagno di diritti per la nostra generazione.

Un nodo importante su cui lavorare, concreto e al tempo stesso altamente simbolico, sono le dimissioni di Decleva, rettore di Unimi e presidente Crui sfacciatamente favorevole alla riforma, al contrario di una compatta comunità accademica che lo “sfiducerebbe”. Decleva si è distinto in questi anni per una gestione poco trasparente e manageriale dell’università, nonché un altissimo livello di repressione interna verso il dissenso studentesco (vogliamo contare solo quante volte la polizia è entrata nelle facoltà durante l’ultimo autunno?).

Il dato fondamentale dell’autunno comunque è che la consapevolezza genera conflitto anche al di fuori delle date di mobilitazione fissate dai lavori parlamentari, il riconoscersi come categoria senza diritti crea un consenso diffuso e la partecipazione ai momenti di lotta, in misura molto maggiore che dopo le “ondate” vuote di contenuti di due anni fa.

Un ultimo aspetto riguarda le pratiche di piazza: c’è sicuramente la ricchezza di un movimento che non si è qualificato da subito né come violento né come non-violento, ma in grado di esprimere, in situazioni diverse, diversi gradi di forza e radicalità. Pur con le difficoltà che ogni momento di rottura comporta, anche questa caratteristica contribuisce a rendere gli studenti un soggetto sociale con propri metodi d’azione in grado di riscuotere un consenso diffuso niente affatto scontato (basti pensare alla solidarietà trasversale agli arrestati per il 14 dicembre a Roma).

A Milano, a fronte di una partecipazione di piazza non certo esagerata, abbiamo assistito ad un livello di repressione inaccettabile messo in campo dal nuovo questore: cariche a freddo, cortei bloccati e circondati dalla polizia, fermi di studenti a caso, interventi nelle università… per non parlare degli ambiti extra-studenteschi.

La nota positiva è invece la sperimentazione da parte degli universitari milanesi di forme diverse dello stare in piazza, dai cordoni alla samba band, ma sempre in modo compatto. Lo si è visto ad esempio al corteo del 22 dicembre, colorato ma determinato nonostante il clima non fosse dei migliori. Il dato stesso dell’essere in piazza ancora in centinaia appena prima delle vacanze di natale, è il segno di un movimento magari ancora in nuce, ma radicale e determinato.

Starà ai collettivi e a tutti gli studenti non disperdersi e continuare ad essere un soggetto di ricomposizione per un conflitto che sappia “sfiduciare” realmente una politica e una classe dirigente ormai completamente scollegati dalla società.

In altre parole, prendere in mano il proprio futuro, con la tenacia fino ad ora dimostrata.

A sarà dura!

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