ONE WORLD ONE STRUGGLE


Non è più possibile parlare delle trasformazioni sociali in atto anche all’interno degli atenei limitandosi ad osservare la situazione italiana, come se le politiche di austerità di casa nostra fossero il frutto solo della miopia del governo e non di tendenze globali. Con l’editoriale sottostante – che cerca di tenere insieme il filo delle ultime trasformazioni – inauguriamo la sezione “One World, One Struggle” del blog, nella quale parleremo dei tratti comuni di tali politiche e delle comuni strategie di lotta degli studenti, dei precari, dei giovani, dei lavoratori in tutto il mondo, a partire dalle rivoluzioni nel mondo arabo e dalle rivolte studentesche in Europa.

>>Leggi: volantone di “riscossa_studentesca” sul Processo di Bologna.

>>ISM – International Student Movement : piattaforma indipendente di studenti e attivisti contro la mercificazione dei saperi (che cos’èjoin statement). Recentemente ha lanciato iniziative delocalizzate per tutta la primavera 2011 ( Spring of Resistance ) e prodotto il pamphlet “Education Activist Movements Worldwide” sulle diverse esperienze di lotta in giro per il mondo.

Università neoliberista vs AUTOGESTIONE

Le politiche sull’università degli ultimi tre anni, dai tagli della legge 133/08 in poi, sono tutt’altro che un fulmine a ciel sereno o un’anomalia italiana: si tratta invece di parti di un processo che si verifica in forme simili in tutta Europa e più in generale a livello globale.

Per capire meglio quanto sta succedendo, proviamo a guardare l’università da più lontano, tenendo presente che i provvedimenti sull’università sono sempre speculari ad analoghi – se non peggiori – interventi sul sistema scolastico, in particolare sulle superiori.

Da almeno 20 anni stiamo assistendo a livello globale a quella che viene definita la “deriva neoliberista” della formazione.

Per intenderci: l’aumento del benessere e il ciclo di lotte degli anni ‘60-‘70, nonché il salto (perlomeno tentato) verso un’economia “della conoscenza”, ci hanno consegnato in Italia una università pubblica che si può definire, con buona approssimazione, di massa: rette (relativamente) basse e accesso (quasi) ovunque illimitato.

Per “deriva neoliberista” intendiamo invece l’adeguamento alle necessità e ai dettami del mercato globale, attraverso in particolare due elementi chiave: sempre minor intervento statale (cioè pubblico), sia per quanto riguarda i finanziamenti che la determinazione dei progetti di didattica e ricerca; legame a doppio filo col mondo della produzione, cioè le aziende, che si insinua negli spazi lasciati vuoti dall’iniziativa statale. Alle aziende interessano, ovviamente, i propri interessi: oltre alla speculazione diretta sull’ennesima fetta di “cosa pubblica” messa a disposizione, questi sono formare i tecnici specializzati e la classe dirigente necessari alla produzione. Non interessa invece garantire un’istruzione di qualità al maggior numero di gente possibile (il diritto allo studio), né una ricerca da cui non si possa trarre profitto (con più o meno lungimiranza), ma semplicemente avere personale competente per i propri utili.

In Italia si comincia nel ’90 e seguenti con la cosiddetta “autonomia universitaria”, ovvero il passaggio della gestione dell’amministrazione e dei fondi da uno stretto controllo statale nelle mani dei singoli atenei (nel ’94 viene istituito l’FFO assegnato in blocco, prima lo stato controllava separatamente le varie voci di spesa come stipendi, spese per le strutture, investimenti…); si apre inoltre alla possibilità di andare a ricercare fondi anche al di fuori di quelli pubblici. Da “lo Stato paga, lo Stato decide” (almeno in teoria) si passa a un “lo Stato paga, l’Università (i baroni) decide” totalmente deregolamentato.

Dal ’99 comincia ufficialmente il cosiddetto processo di Bologna, un percorso di armonizzazione dei sistemi universitari europei sul modello anglosassone. Lo scopo è creare uno spazio comune dell’istruzione superiore (leggi potenziare la ricerca funzionale all’economia e creare un senso di appartenenza) per la nascente potenza economica (orientata appunto verso un’economia “della conoscenza) dell’Europa unita, anche nella moneta. Se nelle prime dichiarazioni si sottolinea l’importanza dell’autonomia dei saperi e il carattere di bene pubblico dell’istruzione, nel corso degli anni l’attenzione si sposta verso l’importanza del legame con le aziende. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: aziendalizzazione delle università (gestite sempre più su principi economici e non didattici), conseguente privatizzazione – e aumento dei prezzi – dei servizi che dovrebbero garantire il diritto allo studio (mense, abitazioni…), aumento delle tasse universitarie e spostamento del welfare studentesco dalle borse di studio all’indebitamento dei “prestiti d’onore”, sempre più incentivi ai “tirocini formativi” in azienda (sfruttamento a costo zero del lavoro degli studenti), ingresso dei privati negli organi decisionali degli atenei (col rischio che questi diventino sedi di “corsi di formazione” più o meno specializzati a costo zero per le aziende). In poche parole: la formazione pubblica (pagata dallo stato) diventa sempre piu’ acritica, settoriale ed al servizio delle aziende, e sempre meno “universitaria”; il costo di questa formazione viene sempre piu’ scaricato direttamente sugli studenti e le famiglie.

Sempre col Bologna Process viene “inventato” il credito formativo (un modo di quantificare il processo di apprendimento come se fosse un processo produttivo) e introdotto il 3+2 che va a sostituire la usuali lauree a ciclo unico, spezzettando i corsi e intensificando i ritmi di studio (in molti casi certe lauree quadriennali sono state semplicemente compresse per rientrare nei 3 anni, con ovvie conseguenze sulla qualità della didattica) e trasformando le università in “esamifici”: gli esami sono di più e con contenuti minori, evidentemente non si vuole più trasmettere un sapere “completo”, ma semplicemente – e velocemente – delle microunità utili ed utilizzabili. L’obiettivo è rendere flessibile la formazione universitaria: un’università di massa che sforna tanti laureati di alto livello non serve alle aziende, pertanto si diversifica la formazione con l’idea che solo pochi (destinati a diventare “dirigenti”) arrivino fino ai più alti livelli, e gli altri siano ben felici di andare a lavorare il prima possibile con il loro titolo in tasca, non importa se completamente dequalificato. In tal modo il meccanismo di gerarchizzazione della forza-lavoro agisce all’interno degli atenei (ormai massificati), e non più solo con il meccanismo dell’esclusione/accesso. L’università da “ascensore sociale” diventa così una fabbrica di manodopera precaria e ricattabile, assolutamente in linea con l’esplosione dei contratti “atipici” nel mondo del lavoro.

In Italia una conseguenza delle possibilità offerte da autonomia e 3+2 è il proliferare di sedi universitarie piccole e dequalificate e corsi di laurea assurdi, creati per esigenze produttive del territorio (magari poche aziende locali) e per dare cattedre ad amici e parenti. E questi sì, sono gli sprechi dell’università italiana, responsabilità diretta di baroni e oligarchie universitarie!

Come leggere allora i tagli e il ddl Gelmini? Assolutamente nella direzione descritta, come conferma peraltro il plauso della Confindustria (che in un “istruttivo” documento traccia le proprie linee per l’università). Trascuriamo i sostanziosi esborsi pubblici agli atenei privati, e facciamo una premessa per rendere più comprensibile il seguito: in una nota del settembre 2009, il governo ammette il fallimento del 3+2 nella misura in cui pochissimi studenti si fermano alla laurea triennale, soprattutto nelle facoltà come ingegneria in cui più ci si aspettava che sarebbe successo (guarda caso, la facoltà per cui più è facile immaginare il legame con la produzione). Vediamo ora alcuni punti:

*con i tagli – testimonianza pura del disinteresse statale verso il settore della formazione – si obbligano gli atenei a ricercare i fondi presso i privati (spesso vincolati, con buona pace di libertà di ricerca e didattica), svendere il patrimonio immobiliare, diminuire il numero di docenti (e personale amministrativo) per contenere le spese di stipendio. Tenendo presente che una riduzione del corpo docente (con la chiusura di sedi e corsi di laurea) e dei fondi per il diritto allo studio determinerà anche una riduzione degli studenti (per mancanza di fiducia o di risorse), e che alle lauree magistrali sempre più si usa il numero chiuso, torniamo a quanto detto all’inizio: meno studenti e soprattutto meno studenti nei livelli più alti. Un’ulteriore previsione per il futuro può essere fatta guardando a quanto sta succedendo nel Regno Unito: il governo ha attuato pesanti tagli ai fondi pubblici, dando contemporaneamente la possibilità agli atenei di triplicare le tasse universitarie (il limite è ora di circa 9000 pound all’anno) per compensare la perdita. Molte università stanno già provvedendo. Se si considera che in Inghilterra il diritto allo studio è garantito in parte attraverso i prestiti d’onore (che ora arriveranno a circa 45000 pound di debito alla fine di un ciclo di studi), ben si capisce l’intento: l’università la paghino gli studenti (chi può permettersela ovviamente). Chissà che anche da noi…

*La messa ad esaurimento del ruolo dei ricercatori a tempo indeterminato e l’apertura verso il tempo determinato (già previsti dal ddl Moratti del 2005) aprono la strada alla precarizzazione di massa della docenza: più controllabile l’attività di didattica e di ricerca, meno impegni economici di lungo periodo per gli atenei, più adattabilità di quantità e tipo di didattica e ricerca alla rapidità di cambiamento delle esigenze delle aziende.

*Una governance autoritaria e aperta all’influenza diretta di esterni, garantisce “affidabilità” del sistema universitario verso il sistema produttivo.

*Le università considerate virtuose (finanziariamente), oltre a ricevere più fondi, potranno sperimentare forme di governance più “flessibili” rispetto ai paradigmi ministeriali, come a dire: potranno ancora di più legarsi al privato sottraendosi ai vincoli statali. E le altre? Semplicemente ricevendo sempre meno sovvenzioni sono destinate a diventare atenei di serie B.

*L’istituzione di un fondo nazionale per il merito (condizionato anche da eventuali privati che partecipino allo stanziamento dei fondi) che non prevede criteri di reddito né interventi in tal senso, dà esattamente la cifra di quello che interessa alle aziende: selezionare i più “efficienti”, trasversalmente alle fasce di reddito, e fregarsene degli altri (tuttavia chi è economicamente fortunato, oltre a una condizione di partenza avvantaggiata, potrà comunque permettersi un’università pubblica o privata).

Ben si vede come le ultime manovre si inseriscono perfettamente nel solco di riforma neoliberista dell’università. Un sistema che lavori “per la collettività” dovrebbe perseguire invece l’obiettivo di garantire l’accesso a una didattica di qualità a tutti e preoccuparsi di significative aperture anche verso i cittadini non studenti. L’università dovrebbe essere un motore culturale per tutti, ma per come è organizzata si trova ad essere collegata alla società solo tramite l’adeguamento al mercato del lavoro

Sono necessari adeguati fondi al sistema pubblico che diano la possibilità di attuare serie politiche di diritto allo studio e liberino didattica e ricerca dal ricatto di dover sottostare ai finanziamenti vincolati dei privati. È necessaria una gestione democratica e partecipata degli atenei, compresa la didattica, per permettere in ogni ambito la critica e la vivacità culturale necessarie a rendere davvero formativa e dinamica l’istruzione dell’individuo. In tal senso non si può non notare come l’applicazione del sistema 3+2, con esami piccoli in rapida successione, limiti la possibilità che la didattica sia realmente critica e partecipata. Quello che rivendichiamo è invece il diritto all’autoformazione, riconoscendo come il sapere impartito nelle universita’ sia funzionale solo a un certo tipo di societa’. Autoformazione quindi sia nei metodi e contenuti della didattica “standard”, sia per quanto riguarda l’apertura verso tematiche diverse e collegate col tessuto sociale che ci circonda e rispondenti ai nostri bisogni reali, attraverso seminari auto- o co-gestiti che rendano realmente protagonisti gli studenti. Favorire l’autogestione della didattica significa anche prevedere un numero di appelli tale da consentire una reale autoprogrammazione degli studi, così come rendere pienamente fruibili le strutture universitarie anche fuori dagli orari dei corsi e favorire l’incontro e lo scambio tra persone di diverse discipline e col mondo esterno.

Un’altra riflessione importante riguarda la ricerca, vale a dire quale ricerca e a vantaggio di chi: innanzitutto, non è indifferente quale tipo di ricerca si svolge in un ateneo, non è indifferente se si studia la cura per una malattia o la fusoliera di un cacciabombardiere; né è indifferente se le risorse del sistema pubblico servono per ricerche private o scoperte di dominio pubblico. Un’università che sia realmente un bene comune, deve affermare la dimensione pubblica dei saperi ed assumersi delle responsabilità verso la società. È necessaria la libera circolazione dei risultati della ricerca senza copyright per le aziende, e un controllo popolare sugli indirizzi di ricerca. In particolare ricerche di guerra e lo sviluppo del nucleare devono restare fuori dai nostri atenei.

Un modo per rispondere dal basso ai processi in atto è che studenti e non studenti comincino da subito ad autogestire parti della propria vita universitaria: autogestione di spazi (un’aula, una ciclofficina), organizzazione di eventi autogestiti da parte di studenti e non studenti (come un’assemblea o una serata), giornalini, seminari di autoformazione, laboratori… sono esperienze belle ed utili, ed anche un modo per ridefinire il rapporto tra atenei e società a misura di cittadino. Del resto la grande quantità di giovani che si ritrovano nelle università ne fanno dei serbatoi naturali di forza, intelligenza, rabbia sociale. Riaffermare direttamente la propria soggettività di studenti e cittadini significa anche costruire una rete di relazioni e un tessuto sociale che diventi per sua natura un fenomeno di resistenza, sia culturale sia concreto, alle decisioni calate dall’alto e all’isolamento dell’individuo, le pratiche di autogestione sono pertanto nemiche naturali e resistenza immediata al modello di università e società che vogliono imporci.

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