Riflessioni sull’onda e sulla ricerca dal manifesto


Qualche riflessione dal manifesto del 9 e dell’11 gennaio 2009 (qualche giorno fa abbiamo pubblicato l’articolo cui Flores d’Arcais qui risponde, sull’interessante numero speciale di MicroMega di cui consigliamo fortemente l’acquisto).


L’AMBIVALENTE E AMBIGUA CONDIZIONE STUDENTESCA
Un’onda VI SEPPELLIRÀ

Una risposta del direttore di «MicroMega» agli articoli che hanno presentato la rivista su queste pagine. Dal ruolo dell’università alla contingenza che caratterizza la figura dello studente. Temi proposti per una discussione sulle caratteristiche, le culture politiche del movimento e dei suoi possibili rapporti di alleanza con le altre mobilitazioni «repubblicane» della società civile
Paolo Flores d’Arcais
Francesco Raparelli e Augusto Illuminati sono stati prodighi di elogi per il numero speciale di MicroMega Un’onda vi seppellirà, ma hanno trovato del tutto sbagliato, e perfino contraddittorio con il resto del volume, il mio editoriale di apertura «Rivolta o ideologia» (il manifesto del 31 Dicembre 2008). Spero che il loro apprezzamento per il numero (della cui realizzazione il merito va in primo luogo a Emilio Carnevali e Cinzia Sciuto), così caldo e motivato, ne aiuti la circolazione tra gli studenti e sia il nostro piccolo contributo alle tenuta, al rilancio, alla crescita del movimento.
Quanto al merito dei nostri dissensi, che non vanno diplomaticamente ridimensionati ma certamente chiariti: la questione principale è l’analisi della figura sociale dello studente nell’ambito di una più generale analisi delle nuove figure produttive – e sfruttate – (il «general intellect»), del capitalismo postfordista.
Ora: l’università è anche il luogo di formazione di tutte le forme di lavoro precario che caratterizzano il capitalismo attuale, e lo studente è dunque anche il precario delle nuove forme di sfruttamento e dominio (per usare il linguaggio standard).
Anche, ma non solo. Perché l’università è anche il luogo di riproduzione di tutte le figure sociali dominanti e collaterali e domestiche dello sfruttamento. È insomma anche (e magari soprattutto) il luogo di riproduzione dell’establishment. Dei «padroni» e manager e di tutti gli apparati di repressione, controllo, mediazione, consenso, che mantengono in vita il sistema. Non riconoscere come essenziale questa funzione dell’università significa rovesciare ogni materialismo e immergersi nel più puro idealismo sociologico (una contraddizione in termini). Significa immaginare uno sfruttamento senza sfruttatori, un dominio senza dominanti, o far discendere l’establishment dal cielo.
Se dunque l’università è il luogo in cui si riproducono tutte le figure sociali, contraddittorie e antagoniste, e non solo quelle multiformi del precariato «general intellect», la figura sociale dello studente risulterà strutturalmente ambivalente. E in più sensi.

Tra precariato e establishment
Socialmente ci saranno studenti che (per semplificare) diventeranno establishment e studenti che diventeranno «general intellect», secondo linee che in larga misura replicheranno i ruoli delle famiglie di origine, ma in misura significativa segneranno invece mobilità da una classe all’altra (sempre per usare un linguaggio standard: e quasi sempre dalla sfruttata all’establishment), mentre la cultura che verrà trasmessa, sia per i contenuti che per i metodi, sarà un intreccio di addestramento a questi ruoli e di sapere critico capace di metterli in discussione, e si potrebbe continuare. Tutte queste ambiguità e ambivalenze passano anche, potenzialmente, all’interno di ogni singolo studente, diviso tra prospettive di integrazione/carriera nell’establishment, forme diverse di sfruttamento, ecc.
Ecco perché una analisi meramente «produttivistica» della figura sociale dello studente mi sembra quanto di più idealistico vi sia, e mi sembra ripeta, quasi alla lettera, mutatis mutandis, lo stesso errore che veniva fatto dalle componenti «operaiste» del movimento studentesco del ’68. Dell’altro ideologismo, di matrice più classicamente marxista-leninista, che Raparelli stesso critica, non mi sono occupato perché non mi sembra abbia possibilità di effettiva influenza, dato il carattere francamente arcaico delle analisi.
Se dunque lo studente è una figura sociale ambivalente, perché transitoria, la scelta etico-politica di ciascuno, e del movimento nel suo complesso, diventa elemento cruciale per la sua tenuta e il suo futuro (l’elemento di «soggettivismo», sempre per usare il linguaggio standard: rivoluzionario o riformatore che tale «soggettivismo» sia,). Del resto, non si capirebbe altrimenti perché settori consistenti del mondo studentesco non partecipino alle lotte, e anzi le combattano, e si schierino politicamente a destra. Per dirla brutalmente, «sfruttato» e «sfruttatore» nello studente potenzialmente convivono, poiché convivono possibili futuri (benché le chance per ciascuno singolarmente preso siano tutt’altro che eguali, come è ovvio).

Le asimettrie di potere
Se si guarda perciò materialisticamente allo studente e alla sua ambivalenza, e all’ambivalenza del sapere che nelle università viene trasmesso, ne scaturiscono conseguenze (problematiche) sia per i rapporti con altre opposizioni repubblicane nella società sia per la questione della «autoriforma» dell’università dal basso.
Della «autoriforma» parte essenziale dovrebbe già essere la «autoformazione», che Augusto Illuminati considera diversa in linea di principio dai controcorsi del ’68 (imputando a Carnevali e Sciuto di aver invece evidenziato la continuità tra i due fenomeni).
Ora, «autoformazione» non può essere una sorta di parola magica, un abracadabra che al momento di realizzarsi tecnicamente o fallisce o si riempie di modalità e procedure che ne vanificano gli intenti. Ma la formazione contiene sempre un elemento irriducibile e ineludibile di trasmissione del sapere. Potrà avvenire in forme pedagogiche e di «potere» ex-cathedra radicalmente diverse dalle attuali (esistono elaborazioni sull’argomento affascinanti, soprattutto di matrice anarchica, dagli asili di infanzia all’università), ma l’elemento di trasmissione, e relativa asimmetria tra docente e discente, sussisterà, quali che siano le forme nuovissime inventate. Ma sono proprio queste forme che mi sembra non vengano analizzate affatto, per la difficoltà di affrontare la pietra di inciampo dell’asimmetria del sapere. E del significato diverso che nei vari rami tale asimmetria può avere (in fisica delle particelle e in etruscologia è diversa che in «Storia del reality», che prima o poi diventerà un corso).
La formazione, insomma, potrà essere più o meno critica, più o meno partecipata e seminariale, più o meno «cattedratica», ma non potrà mai essere «auto», pienamente democratica, come una grande repubblicana, Hannah Arendt, ha spiegato infinite volte. Chiarire in che modo ciò si differenzi davvero dai controcorsi, in che modo implichi pedagogie nuove della trasmissione del sapere, in che modo debba cambiare il ruolo del docente, che strutturalmente non sarà mai eguale allo studente se non in una retorica che si accontenta di parole, è quanto il movimento ancora non ha fatto (semmai lo ha cominciato, ma soprattutto tra i ricercatori e i dottorandi di alcune facoltà scientifiche).Vedo insomma il rischio, micidiale per il movimento, che «riconquistare democraticamente le grandi istituzione del welfare» rimanga una formula suggestiva, un appagamento emotivo, non uno strumento materialistico di lotta.

I fronti di lotta
Del resto, realizzare una riforma non è neppure il compito essenziale di un movimento di studenti. Se non si trasformano assetti cruciali della società, e in essi della ricerca, dell’informazione, del diritto, ecc., il destino dello studente sarà sempre di diventare in larga misura un precario, in altra misura (anch’essa assai larga) un membro dell’establishment nei suoi vari settori e livelli gerarchici, e solo in casi privilegiati, e socialmente poco rilevanti (epperciò tollerati dal sistema), un lavoratore che nella sua stessa attività lavorativa non si troverà scisso dai suoi «diritti del cittadino» e dall’esercizio della sua porzione di «sovranità popolare», solennemente ricamati nella Costituzione ma calpestati e vilipesi nella sfera della vita reale (e sempre più anche in quella «astratta» della politica).
Ecco perché io ritengo essenziale, per il futuro del movimento, che sappia collegarsi-a, ri-animare, suscitare, iniziative di lotta in altri settori e ambiti tematici (altromondisti, girotondi, piazzenavone, ecc., senza dimenticare la laicità, che il nuovo invito del rettore al Papa rende di stringente attualità).
Sono solo accenni, che si prestano ad essere equivocati, e per approfondire i quali «MicroMega» ha avanzato al movimento la proposta, proprio tramite uno degli autori degli articoli, Francesco Raparelli, di una discussione pubblica all’Università. Che mi auguro avvenga nel vivo di una lotta di nuovo in corso.


UNIVERSITÀ
L’anomalia ancora da costruire

Benedetto Vecchi
L’onda si forma, cresce e poi rifluisce. È un fatto noto, ma se è anomala può infrangere ogni modello di analisi. E il movimento contro le proposte del ministro Mariastella Gelmini ha subito dichiarato la sua anomalia. Anche quando sembrava che avesse lasciato il posto alla risacca, ha mandato a dire che non voleva essere un movimento dipendente dalle azioni del potere politico, sia che vestisse le divise istituzionali che gli abiti di un qualche partito, sia che fosse presente o non in Parlamento. E quando ha pacificamente paralizzato, almeno a Roma, cioè nella capitale, sede del parlamento, la vita pubblica già affermava che quella invasione della città era solo un assaggio della sua potenza.
Ma poi la parola è passata a Mariastella Gelmini, che, se su YouTube invitava al confronto, nelle stanze segrete del ministero stilava pessimi decreti attuativi della riforma della scuola primaria e modificava il decreto legge sull’Università. Ieri, infine, il voto in Parlamento che ha approvato la nuova versione.
Sulle modifiche introdotte non c’è molto da dire. Gli ottimisti potrebbero dire che è solo maquillage, i pessimisti che sono peggiorative. Più realisticamente si può dire che il ministro rompe ogni indugio e mette nero su bianco un tassello importante nel progetto di una differenziazione dei finanziamenti alle università, al fine di creare centri di eccellenza e università di «secondo piano». E che uno dei criteri portanti è dato dalla riduzione dei costi del personale. Una logica aziendalista denunciata nei mesi scorsi, ma le modifiche introdotte, stabilendo che sia il bilancio a stabilire quali gli atenei meritevoli e quelli no, la dicono lunga sullo stile di pensiero attorno alla formazione di questa compagine governativa.
Quando dal governo giunse la dichiarazione che il decreto non sarebbe stato rinnovato per presentare una proposta organica di riforma, in molti scrissero che se non era una vittoria piena le mobilitazioni erano riuscite almeno a mettere in difficoltà Silvio Berlusconi. Ma i decreti attuativi e il voto di ieri mettono in evidenza una strategia del governo, che dovrebbe far riflettere. Il governo, infatti, di fronte al conflitto sociale ha scelto una precisa strategia. Si dice sempre disposto al dialogo, sceglie un basso profilo rispetto alle manifestazioni di piazza, ma poi quando le mobilitazioni perdono intensità riprende il suo cammino come se nulla fosse accaduto. Un cambiamento di strategia rispetto alla precedente esperienza governativa di Silvio Berlusconi, quando il cavaliere mostrava il volto duro del decisionista che non indietreggiava di fronte a nulla.
La prola torna adesso all’Onda per dimostrare la sua anomalia. Vuol creare una propria agenda politica senza diventare una variabile dipendente di nessuno. Non vuole cedere alle lusinghe di chi la corteggia; sostiene semmai che i suoi soli e naturali alleati sono gli altri movimenti sociali. Una strategia espositiva delle proprie ragioni che paga in termini di consenso, perché mostra una capacità autonoma di elaborazione. Ma proprio perché vuole essere una forma specifica dell’agire politico, l’Onda è costretta a misurarsi con i nodi della politica. La costruzione del consenso, ovviamente, ma anche la necessità di dare continuità alla propria azione. Assieme a una lettura dei rapporti sociali vigenti. E di conseguenza il nodo del potere e delle alleanza da stabilire. Se la scelta è di non delegare alle forze politiche la rappresentanza delle proprie proposte è con questo ordine del discorso che si misura un sempre un movimento sociale
Il filosofo francese Alain Badiou ha scritto che la politica si può pensare solo in casi eccezionali, quando cioè si crea una rottura nel tempo lineare dell’esercizio del potere. Solo in questi casi, afferma Badiou, la politica può essere pensata. È difficile sostenere che la realtà italiana sia in questa situazione. Eppure l’Onda ha accumulato sapere critico, una vision innovativa sul tentativo di trasformare il sistema della formazione in una struttura di servizio delle imprese.
È finora sfuggita anche alla tentazioni di trasformarsi in un movimento che privilegia una single issue, lasciando così ad altri il compito di trovare una praticabilità politica di quella «questione». Non riesce però a pensare politicamente la parzialità da cui guarda la totalità dei rapporti sociali. Urgenza data anche da una crisi economica che sta radicalmente e ferocemente cambiando il panorama sociale e le caratteristiche del capitalismo che sin qui è stato variamente chiamato neoliberista, postfordista o cognitivo.
Nei mesi scorsi l’Onda ha mandato a dire che è fatta di uomini e donne che non «mollano mai»; che l’Università è diventata un nodo importante nella produzione della ricchezza e che i progetti di riforma vogliono legittimare il fatto di trasformarla in attività direttamente produttiva. Tematiche e attitudini al conflitto che devono fare i conti con una politica istituzionale che fonda la sua legittimità nell’investitura avuta nel voto elettorale. Ma se si vuole incrinare il monopolio della decisione politica occorre che quei temi e attitudini diventino discorso programmatico. Innovando dunque le forme di agire politico e di organizzazione, evitando così i vicoli ciechi del passato.
L’anomalia è uno stile di pensiero e di agire politico da sperimentare. Anche perché altrimenti un’onda è destinata sempre alla risacca. L’anomalia va quindi inventata in una pratica culturale e politica dove nulla è dato per scontato. Neppure quello che sembrava acquisito.


SAGGI
Il male oscuro della ricerca scientifica
«La guerra segreta contro il cancro» di Devra Davis

Luca Tomassini
DEVRA DAVIS, STORIA SEGRETA DELLA GUERRA CONTRO IL CANCRO, CODICE EDIZIONE, PP. 459, EURO 35
A partire dagli anni Sessanta, nel tentativo di «spiegare» la scienza, molti studiosi abbandonarono l’epistemologia per dedicarsi alla sociologia. Oggi, da molti degli eredi (o presunti tali) di quella svolta un fatto è considerato scientificamente accertato se lo è dagli «esperti» del settore, gli scienziati appunto, magari dopo confronto aperto e democratico. Qualcuno si era persino spinto nel piccolo della «vita di laboratorio» per fare l’etnologia del ricercatore. Ebbene, le stanze occulte delle quali si parla in Storia segreta della guerra contro il cancro della studiosa americana Devra Davis non sono quelle dove ufficialmente si produce conoscenza ma quelle del potere e del denaro. Dove la scienza è comprata e venduta, occultata o trasformata in evento rivoluzionario. I luoghi quindi in cui si controlla e determina la direzione che prenderà la ricerca, nella più completa (e complice) inconsapevolezza della maggior parte degli stessi scienziati.
Epidemiologa di fama internazionale, ex direttrice dell’Ufficio di studi ambientali e tossicologici dell’Accademia delle scienze statunitense, Davis è attualmente alla testa del Centro di oncologia ambientale dell’università di Pittsburgh, dal quale prosegue la battaglia di una vita contro il male del secolo e i molti suoi complici. Le sue armi non sono però farmaci o tecnologie di diagnosi sempre più avanzati e costosi, ma analisi statistiche della morte chiamate epidemiologia. Il suo affermarsi a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, spiega Davis, ha costituito un potente e insostituibile strumento per dimostrare (a posteriori) la stretta correlazione tra inquinamento ambientale, produzione industriale e la vera e propria epidemia di cancro nella quale siamo immersi. La sua trasformazione in tempi recenti in strumento per mettere fuori gioco qualunque valutazione scientifica di rischi sanitari è una vicenda emblematica che fa da sfondo all’intero libro.
Sono passati più di trent’anni da quando Nixon, per far dimenticare la sconfitta dell’esercito americano in Asia, lanciò la sua famigerata guerra contro il cancro. Enormi finanziamenti furono concessi per afferrare il sogno di una «cura definitiva». Macchine e sostanze chimiche per contrastare gli effetti indesiderati della produzione di macchine e sostanze chimiche, il circolo virtuoso dell’economia. Oggi sappiamo che nonostante molti indubitabili successi, i principali risultati sono stati in realtà ottenuti grazie alla prevenzione. Ovvietà tutt’altro che ovvie, e le oltre quattrocento pagine del libro sono un tentativo di spiegare come sia stato possibile che fatti ragionevoli e peraltro molto bene accertati abbiano potuto essere ignorati per decenni (e tuttora) dalle autorità.
La risposta getta una luce sulla natura della ricerca scientifica e del suo posto nella società capitalistica, sulla debolezza morale di tanti dei sui protagonisti, sull’oscuro intreccio tra poteri pubblici e privati che tanto ha condizionato lo sviluppo del welfare state negli Usa ma non solo. Davis si concentra in particolare sulla vita dell’accademico Robert Kehoe, tra i padri della moderna oncologia statunitense, studioso serio e affidabile per tutta la vita sul libro paga della DuPont. Con i gradi di capitano dell’esercito degli Stati Uniti fu spedito nella Germania distrutta dai bombardamenti per raccogliere e occultare i frutti delle avanzatissime ricerche dei colleghi tedeschi. Quel materiale non è mai stato pubblicato, Kehoe e i suoi potenti padroni lo hanno sottratto alla scienza e soprattutto al pubblico. Il suo esempio è stato ampiamente seguito, e l’Europa pretende di fare oggi ancora di più: il suo programma «Reach» assegna infatti alle imprese l’incarico di valutare i rischi delle sostanze chimiche!
Altra figura centrale della storia è quella del britannico Sir Richard Doll, tra i fondatori della moderna analisi statistica e noto per le sue dotte smentite delle evidenze di un legame tra cancro ai polmoni e fumo. Non ha mai reso note le cospicue parcelle che intascava dalle industrie del tabacco. Ma Doll è stato soprattutto un grande ispiratore di una strategia tutta fatta di scienza seria e severa, capace di trasformare il dubbio di chi meglio vuole conoscere in arma letale contro ogni evidenza avversa a chi possa permettersi di pagare (anche nuove ricerche, non solo tangenti). Fino all’assurdo di rifiutare le tradizionali evidenze sperimentali (tumori indottti su animali) della cancerogenicità di molte sostanze come prove per adottare misure cautelative. In fondo, se non siamo assolutamente sicuri che una sostanza sia pericolosa per gli esseri umani non c’è motivo per vietarla, e per esserlo è necessaria una schiacciante evidenza epidemiologica. Che per sua natura arriva a cose fatte e persone decedute, spesso addirittura quando i prodotti incriminati hanno esurito il loro ciclo di vita sul mercato. Non si tratta di questioni di principio, ribadisce Davis, ma di sentenze della Corte suprema degli Stati uniti come la tristemente nota «Daubert contro Merrel Dow Pharmaceuticals» del 1993.
Un quadro davvero desolante, che dovrebbe far riflettere tanto gli entusiasti sostenitori del «privato controllato» nel campo della sanità quanto quelli della triade miracolosa valutazione-merito-efficienza. La stessa Davis, però, sembra cadere in un analogo equivoco. La sua proposta è una sorta di Tribunale per la giustizia e la riconciliazione sullo stile di quello che ha portato il Sudafrica fuori dall’apartheid. Il ragionamento è semplice. Chiedere alle imprese di pagari i danni equivarrebbe a condannarle a morte, meglio allora che riconoscano le loro colpe e in cambio (oltre per carità a qualche risarcimento) forniscano tutte le informazioni e ricerche in loro possesso. Davis è una sostenitrice di Obama nonché esponente di spicco dell’associazione di Al Gore e magari con loro avrà la sua rivoluzione. Ma forse, per chi ha a disposizione Veltroni e D’Alema, l’Onda è una soluzione più realistica.

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