Archivio per la categoria Università

su azione universitaria e neofascismi vari

NOI APRIAMO, VOI CHIUDETE

La lista studentesca neofascista Azione Universitaria, costola universitaria di Alleanza Nazionale, in questi mesi sta facendo campagna elettorale nella nostra università riproponendo le deliranti e demagogiche politiche securitarie del loro partito di riferimento.

Solo la costante presenza di agenti della Digos e della Celere in tenuta antisommossa garantisce loro ovunque l’agibilità politica anche se subiscono regolarmente la dura contestazione politica degli studenti universitari.

Questo è quanto è accaduto anche martedì 10 marzo in via Celoria, quando molti di noi hanno contestato la loro presenza. Vogliamo sottolineare che la nostra contestazione non è un boicottaggio elettorale di AU, bensì è diretta contro i contenuti di cui si fa portatrice. Contenuti che riflettono le politiche del governo in ambito universitario: nel corso dell’autunno AU ha infatti sistematicamente difeso i tagli all’istruzione e l’operato della Gelmini, schierandosi di fatto a favore dello smantellamento dell’università pubblica. Oggi basa la propria propaganda elettorale esclusivamente su una presunta mancanza di sicurezza nell’università, ignorando ben più gravi problemi.

La proposta di AU di installare dei tornelli per regolare gli ingressi in Ateneo va di pari passo con la frequente presenza della polizia e con una sempre crescente militarizzazione della vita civile.

Noi sosteniamo

che i soldi andrebbero usati per garantire il diritto allo studio anziché per questi inutili provvedimenti

che l’università è pubblica e chiunque deve potervi accedere liberamente

quella che vogliamo è un’università aperta alla società e centro della vita culturale di una città, non un semplice esamificio chiuso ed autoreferenziale.

Per questo protestiamo contro i tagli, per questo abbiamo proposto (senza causare un solo euro di danni) e riproporremo momenti di apertura serale delle nostre sedi.

La vita negli Atenei rischia di riflettere il clima autoritario e di continuo allarme sociale del Paese, alimentato da una politica che basa il proprio consenso sulla diffusione e strumentalizzazione di sentimenti di insicurezza.

Il risultato sono i militari nelle città (inutili quanto simbolici), le ronde della Lega e dei gruppuscoli dell’estrema destra, le sfilate di fascisti scortate dalla Celere, l’apertura di “covi” neri (come Cuore Nero a Milano e la SkinHouse a Bollate) e la repressione di chi vi si oppone, come dimostrano le cariche e gli arresti a Bergamo e nell’università di Torino.

Lunedì 16 marzo è il sesto anniversario della morte di Dax, militante ucciso dai fascisti in Ticinese.

-LUNEDI’ 16 MARZO ORE 13:00: sound system all’ovale di Bovisa

                                              ORE 14:30: assemblea studentesca

 

coord. Città Studi:- cittastudi.noblogs.org

studenti del politecnico in mobilitazione:- polimob@indivia.net

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FASCISTI E POLIZIA IN UNIVERSITA’

 Oggi anche a cittastudi è comparso un banchetto propagandistico di Azione Universitaria, organizzazione studentesca (anche se non si direbbe vista l’età media dei partecipanti) di stampo neofascista, che ripropone in università le stesse deliranti idee dei suoi padrini politici.

Subito molti studenti di cittastudi e non solo si sono riuniti in un folto presidio, durato fino a che – dopo qualche tensione –  AU non se n’è andata.

Riportiamo il comunicato degli studenti del presidio antifascista:

Oggi 10 marzo, dopo l’ingresso della polizia il 3 marzo in festa del perdono, dopo le brutali cariche di polizia e carabinieri ieri a palazzo nuovo a Torino, nella facoltà di scienze in città studi numerosi studenti hanno contestato la presenza dei neofascisti di azione universitaria, protetti da un ingente schieramento di agenti della digos.

Come sempre accade l’agibilità politica di questi lugubri individui è garantita esclusivamente dalla protezione delle forze dell’ordine.

Subito si è creato un presidio di un centinaio di studenti che ha dimostrato tutto lo sdegno rispetto al patetico tentativo di proselitismo di un gruppuscolo che cerca di riproporre in università il delirio securitario del suo partito di riferimento. Per due ore una presenza sempre crescente di studenti che accorrevano dalle lezioni ha deriso e messo a tacere questo corpo palesemente estraneo all’università.

Dopo l’ultima aberrante provocazione fisica di un’attempata ‘studentessa’ sui 45 anni, la decisa risposta degli studenti antifascisti ha messo finalmente fine a una pagliacciata che era durata fin troppo, smontando ‘creativamente’ il gazebo futurista…
A quel punto con la celere nuovamente entrata all’interno di una facoltà universitaria in tenuta antisommossa gli/le antifascist* hanno risposto compatti fino alla fuga dei neofascisti, che hanno abbandonato la facoltà con la coda tra le gambe scortati dalla polizia.

Crediamo che la risposta data a questi quattro buffoni oggi a Milano sia l’unicarisposta che debba essere data davanti ai tentativi di infiltrazione di questi loschi figuri nelle nostre università.  Un gesto che rivendica nella pratica antifascista l’immediata liberazione di Luca, arrestato ieri a Torino a cui va tutta la nostra solidarietà e il nostro affetto.

Fuori fascisti e polizia dalle nostre università!
Luca libero subito!


Studenti e studentesse antifascist* milanesi!

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Il monito dei rettori: con i tagli via le borse di dottorato

Dal manifesto del 27. Qui un articolo sulle "lauree triennali da valorizzare", con alcuni dati si ingegneria.


I Magnifici: «No a tagli indiscriminati». A rischio in particolare le facoltà di Medicina: «Si azzerano le prestazioni sanitarie offerte ai cittadini» In una lettera la richiesta al ministro Gelmini di rinunciare alla decurtazione dei fondi. «Le conseguenza sarebbero pesantissime e le pagherebbero i giovani»

Stefano Milani

Pochi giorni fa era stato Giorgio Napolitano ad alzare la voce. «No a tagli indifferenziati e indiscriminati», aveva tuonato il capo dello Stato in visita all’università di Perugia. Un monito che se non ha scalfito più di tanto il ministro Gelmini, ostinata ad andare avanti a suon di sforbiciate, ha almeno rinfrancato i rettori italiani. Che ora tornano a farsi sentire e battono cassa. Una ricetta semplice, quella dei Magnifici dell’Aquis (l’Associazione per la qualità delle università italiane statali) scritta nero su bianco in una lettera indirizzata a viale Trastevere, all’interno della quale hanno inserito delle richieste precise. E un punto su cui sono irremovibili: rinunciare ai tagli dei fondi per le università previsti per il 2010 che «saranno devastanti se resteranno nelle proporzioni oggi previste». Secondo quanto emerge da una mappa messa a punto dall’associazione, in metà delle regioni italiane le università sono sottofinanziate. Se il trend non cambierà, spiegano, il rischio concreto sarà quello di non avere più a disposizione borse di dottorato per il prossimo anno. «E le conseguenze dell’attuale crisi economica le subiranno innanzitutto i giovani». La strada da percorrere è esattamente inversa a quella imboccata dal governo, «bisogna sostenere i dottorati di ricerca è importante perché sono proprio questi a permettere di ottenere le migliori performance nella ricerca». Ad essere più in difficoltà sono gli atenei che hanno al loro interno le facoltà di Medicina. Per quelle strutture i rettori chiedono ai ministeri della Salute e dell’Università di reintegrare «quei 350 milioni di euro complessivi sui loro bilanci che sono destinati a pagare le prestazioni di carattere sanitario offerte ai cittadini attraverso il lavoro dei clinici universitari». I rettori vivono sulla Terra e sanno bene che un periodo di vacche magre come questo impone anche di tenere i conti in ordine. Perciò, dicono, «la trasparenza dei bilanci è un pre-requisito per qualsiasi amministrazione pubblica più che mai in un periodo di crisi». Bisogna però «ripartire le risorse a disposizione sulla base di criteri di merito» mettendo a punto al più presto un «efficace sistema di valutazione dei risultati conseguiti sul piano della didattica e della ricerca». Solo così si possono rendere competitivi sul piano internazionale gli atenei del Belpaese. E se poi il ministro Gelmini dei tagli non può proprio farne a meno, almeno che non siano «indiscriminati, non siano una mannaia che si abbatte in modo uguale su tutti gli atenei indipendentemente dalle modalità di gestione e senza alcun riconoscimento del merito». Perché, sottolineano i Magnifici, «non possiamo più continuare con azioni di governo che in realtà governano poco, perché tagliano trasversalmente i finanziamenti agli atenei senza alcuna considerazione della qualità del lavoro che negli stessi atenei si svolge». Sforbiciate che rischiano di mettere ulteriormente in ginocchio un sistema universitario che non è messo proprio bene. E un’ulteriore iniezione di pessimismo l’ha data ieri anche la Conferenza nazionale degli assessori alla Cultura e al Turismo riunitasi a Torino che ha lanciato un altro allarme rosso: l’università non attrae più. I dati parlano chiaro, negli ultimi due anni i nuovi iscritti sono scesi del 4,4%. Le immatricolazioni del 2009 toccano quota 312.104, record negativo da sette anni a questa parte. Le regioni italiane dove si registra il decremento più consistente sono quelle meridionali: 6,6% in meno negli ultimi dodici mesi. Nell’anno accademico 2008/2009, rapportando gli immatricolati con i diplomati dell’anno precedente, solo due studenti su tre (67%) hanno scelto di proseguire gli studi dopo la scuola mentre nel 2007 erano ben il 75%. Sempre più giovani quindi preferiscono fermarsi dopo il diploma della scuola secondaria. Con le prospettive che dà oggi l’università italiana, come dargli torto.

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Napolitano scopre i tagli alla ricerca

 Dal manifesto del 24.


Il capo dello Stato chiede al governo di rivedere le sforbiciate del duo Tremonti-Gelmini. Ma per quest’ultima si tratta solo di spendere meglio i soldi. I rettori ringraziano il Presidente e rinnovano l’allarme sulla sopravvivenza degli atenei che continuano a perdere cervelli

Stefano Milani

Onda su onda, i tagli all’università risalgono il Colle. Che alla prima occasione utile dà voce al disagio comune, di studenti e professori, e tuona: «Mi auguro che maturino le condizioni per un ripensamento delle decisioni di bilancio ispirate ad una logica dei tagli». Non fatevi abbagliare dalla sua solita eleganza verbale, stavolta Giorgio Napolitano va giù duro e dà una bella strigliata al governo e alla sua politica del taglio indiscriminato dei fondi destinati agli atenei. Intervenuto ieri mattina alla celebrazione per i settecento anni dell’Università di Perugia, il capo dello Stato ha invitato a definire la riforma del sistema universitario senza abbandonarsi a «generalizzazioni liquidatorie». Bisogna guardare i singoli atenei in base ai risultati e ai problemi della ricerca «con coraggio». Considerare ciò che accade in questo settore nel resto d’Europa e nel mondo, inoltre, «può suggerire» delle soluzioni. Perché «la ricerca e la formazione – prosegue Napolitano – sono la leva fondamentale per la crescita dell’economia. Questa è una verità difficilmente contestabile». Il messaggio è fin troppo chiaro e mira ad «evitare la dispersione di talenti e dei risultati del nostro sistema scolastico e universitario». Perché questi troppo spesso «non sono tradotti in occasioni di lavoro e di sviluppo». La chiave di volta per risolvere il problema, secondo il presidente, è «una accurata politica che sappia tenersi saggiamente in equilibrio tra il rigore della spesa e la necessità dell’investimento lungimirante». Un discorso applauditissimo dai ragazzi. Uno di loro poi prende la parola. Si chiama Amabile Fazio ed è il rappresentante degli studenti dell’ateneo perugino. Davanti al Presidente lancia l’allarme: diminuiscono gli iscritti nelle università pubbliche mentre aumentano in quelle private e telematiche. Entrando nel merito dei problemi, mette in luce quelli più diffusi tra gli studenti, come il numero chiuso di alcuni corsi di laurea («in contrasto con l’articolo 34 della Costituzione» che «garantisce a tutti l’accesso incondizionato al sapere»), il «mal funzionamento» del sistema universitario del «3+2» e il rischio che le università pubbliche italiane si trasformino in fondazioni private. Ma l’ottimismo per fortuna non manca ai ragazzi, perché «una università migliore è possibile costruirla». Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il ministro Gelmini. Che ieri, due minuti dopo l’affondo del Quirinale, è uscita dal letargo delle ultime settimane precisando che «le preoccupazioni del presidente Napolitano sono anche le preoccupazioni del governo». Sarà. Il ragionamento dell’inquilina di viale Trastevere non fa una grinza: «La Ricerca e l’Università sono alla base dello sviluppo di un Paese». Però, c’è un però. «In questa fase di difficoltà economica internazionale – aggiunge – è necessario investire il denaro pubblico con grande attenzione e oculatezza». Tradotto: bisogna tagliare. Verbo coniugato in ogni forma anche dal ministro della pubblica amministrazione Brunetta che si affretta a rassicurare tutti: «Non ci sono stati tagli indiscriminati». Certo, ammette, «abbiamo tagliato 36 miliardi di euro per il triennio 2009-2011 di spesa corrente», ma sono stati costretti a farlo. L’hanno fatto per gli italiani, perché «così abbiamo salvato l’Italia». Sembra impossibile ma «il governo ha un’enorme attenzione sulla ricerca», aggiunge senza arrossire l’impavido Brunetta. Governo a parte, il monito di Napolitano è piaciuto proprio a tutti. Ai rettori in particolare. Il finanziamento dell’università «è un tema centrale» dal quale dipende «la sopravvivenza della massima istituzione formativa del nostro Paese», sottolinea il presidente della Conferenza dei rettori (Crui), Enrico Decleva, e ringrazia il presidente della Repubblica «per la sua continua attenzione alle questioni riguardanti il sistema universitario». Un «grazie presidente» arriva anche dagli studenti. «I tagli messi in atto dagli ultimi governi – fa notare Roberto Iovino coordinatore dell’Uds – hanno messo seriamente a rischio la centralità di scuola e università come motore per uno sviluppo sostenibile nel nostro paese». La domanda ora è: il governo ascolterà le parole di Napolitano? Visti i precedenti la risposta pare, ahinoi, piuttosto scontata.

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Napolitano: rivedere i tagli. Ma il governo e il Corriere continuano a dare i numeri

Il presidente della Repubblica invita il governo a rivedere i tagli indiscriminati: primo e secondo articolo nel Corriere di oggi, che però dà retta solo al governo, come al solito, e in un arrogante e stomachevole sfoggio di partigianeria continua a fare mera propaganda progovernativa diffondendo dati scandalosamente falsi e smentiti innumerevoli volte, come quello dei 37 corsi di laurea con un solo iscritto, invenzione di Gian Antonio Stella e Perotti, che ciononostante viene ancora interpellato come esperto, mentre non controlla nemmeno le proprie fonti, o peggio mente sapendo di mentire. Ricordiamolo: quell’"1" è solo un valore di controllo nelle statistiche del ministero, che significa che su un dato corso di laurea non ci sono dati: Matrix tempo fa andando a vedere dal vivo ha verificato che quei corsi sono frequentati da decine di studenti (e infatti adesso Mentana ha dovuto dimettersi da Canale 5).
Inoltre si continua a dare i numeri sulla scuola, parlando di un numero di insegnanti per studente superiore del 30% rispetto alla media europea, senza dire che negli altri paesi europei non sono conteggiati gli insegnanti di sostegno, 110.000, e quelli di religione, 25.000 (Osvaldo Roman, La ricreazione è finita), anche perché gli alunni disabili sono in istituti separati o comunque molti lavoratori del settore dell’istruzione non fanno parte del corpo docente, perciò ad esempio la Francia con un numero paragonabile di studenti sembra avere 600.000 insegnanti contro i nostri 800.000, mentre in realtà gli addetti del settore scolastico sono 1.600.000 contro 1.100.000 italiani (Patroncini, Se gli insegnanti vi sembran troppi).
Con tutte queste bugie il governo e il Corriere continuano a nascondere la semplice verità del sottofinanziamento cronico dell’università italiana.

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Atenei contro Sarko

Dal manifesto dell’11 febbraio. Vedi anche http://www.npa2009.org/content/la-r%C3%A9volte-des-universitaires e http://www.auvonslarecherche.fr/spip.php?article2412 .


 

FRANCIA

Cortei a Parigi, Marsiglia, Bordeaux… Ricercatori e studenti saldano le loro proteste
Atenei contro Sarko

Anna Maria Merlo

PARIGI I ricercatori universitari, che Sarkozy con disprezzo a gennaio ha definito coloro che «cercano e non trovano niente», sono scesi ieri in piazza, assieme agli studenti. Un imponente corteo a Parigi, dai giardini del Luxembourg fino all’Assemblea nazionale, con almeno 50mila persone, e altri cortei in città di provincia, da Marsiglia a Rennes, passando per Lione e Bordeaux. A Parigi erano venute delegazioni dal nord, dall’est, dal centro e dall’ovest della Francia. I manifestanti chiedono alla ministra della ricerca Valérie Pécresse di ritirare il decreto di riforma, che cambia la situazione dei ricercatori, mettendoli alla mercé dei presidenti delle università, sia per la loro carriera che per i contenuti delle ricerche. La protesta si è allargata anche ad altri temi: gli studenti contestano la riforma della formazione degli insegnanti delle scuole primarie e secondarie, dove viene di fatto abolito l’anno di stage (retribuito) e il periodo di studio portato da 3 a 5 anni con il master obbligatorio. I ricercatori protestano contro lo smantellamento del Cnrs (Consiglio nazionale della ricerca scientifica), che il governo vorrebbe trasformare in un’agenzia di distribuzione di finanziamenti, per di più in ribasso. Inoltre, la contestazione riguarda anche i tagli al personale, che colpiscono non solo la scuola ma anche le università e la ricerca, con mille posti in meno solo quest’anno. Valérie Pécresse ha già fatto qualche passo indietro. Pur affermando che la riforma «che nessuno aveva osato fare» si farà a tutti i costi, alla vigilia della giornata di mobilitazione ha nominato una mediatrice, Claire Bazy-Malaurie, presidente alla Corte dei conti, per prolungare per «due mesi» la «concertazione» che i ricercatori affermano non essere mai esistita. Ieri, nei cortei si è verificata la «congiunzione» tra studenti e ricercatori che Sarkozy e il governo tanto temevano, una decina di giorni dopo lo sciopero generale riuscito del 29 gennaio, mentre la Guadalupa e la Martinica sono in ebollizione e i sindacati, che saranno ricevuti all’Eliseo il 18 febbraio, hanno già annunciato un’altra giornata di mobilitazione per il 19 marzo. «No allo smantellamento della ricerca e del Cnrs», «no agli insegnanti robot», i cortei hanno scandito slogan contro la politica al ribasso di Sarkozy. Contro il «disprezzo» manifestato dal presidente nei confronti dei ricercatori e delle università, accusati di non produrre abbastanza, mentre la Francia è al settimo posto mondiale per la qualità della ricerca universitaria (classifica di Shangai) malgrado sia al diciottesimo per il livello dei finanziamenti. I cortei hanno denunciato i tagli e le minacce sulla libertà di ricerca. Temono l’arrivo in forza dei finanziamenti privati, per indirizzare la ricerca. Ormai, sulle 85 università francesi, 23 sono in sciopero illimitato dall’inizio di febbraio e 53 mobilitate. Valérie Pécresse si era fatta forte dell’appoggio dei presidenti dell’università. Ma lunedì, in una riunione alla Sorbona, nove presidenti di università (Paris III, IV, cioè la Sorbona, VIII, X e XII, Monpellier III, Besançon, Rouen e Grenoble III), a cui si è aggiunta ieri Orsay, hanno sottoscritto un appello per il «ritiro» della riforma: chiedono di associare «l’insieme della comunità universitaria e dei protagonisti della ricerca» a una riflessione sulle riforme, che tutti considerano necessarie. Ma contestano il metodo sbrigativo e le ingiunzioni venute dall’alto, con il solo scopo di risparmiare e di aumentare l’organizzazione gerarchica. Il premio Nobel per la fisica, Albert Fret, si è unito alla protesta, così come il genetista Axel Kahn. La riforma di Pécresse è riuscita a generare un fronte ostile che non riunisce solo gli oppositori di Sarkozy, ma anche una buona fetta della destra universitaria. Ricercatori e professori non hanno apprezzato i termini sprezzanti con cui Sarkozy e Pécresse hanno trattato gli universitari, accusati di essere pigri e timorosi delle valutazioni. Con la riforma, i presidenti delle università dovranhno valutare il lavoro di ricerca ogni quattro anni e stabilire, sulla base del risultato, la proporzione tra ore dedicate alla ricerca e ore di insegnamento (se non ci sono sufficienti pubblicazioni, al ricercatore verrà attribuito un maggior numero di ore di insegnamento). L’accentramento della valutazione nelle mani dei presidenti di università viene contestato, perché può favorire il sistema dei baroni e il clientelismo. Da quando è iniziato lo sciopero, le università fanno a gara per inventare nuove forme di protesta. Per esmepio, a Paris III-Censier alcune lezioni sono state tenute in strada, nella vicina Place d’Italie, per evitare di far perdere tempo agli studenti. In altre università è stato fatto ricorso al freezing, cioè a delle immobilizzazioni durante alcuni minuti.

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Il ’68 All’hotel Commercio

Dal manifesto del 31 gennaio.


Il ’68 ALL’HOTEL COMMERCIO

C’era una volta a Milano, in piazza Fontana, prima della strage, un luogo occupato dagli studenti fuorisede e trasformato per nove mesi in una casa e una comunità. Un’esperienza dimenticata, che parla di oggi: Onda, sgombero del Conchetta, uso del territorio

Giuseppe Natale

L’occupazione dell’hotel Commercio, in piazza Fontana a Milano, è uno degli eventi più dimenticati del ’68. La concretezza rivendicativa dell’Onda studentesca, e il recente sgombero del centro sociale Conchetta, mi hanno fatto ripensare a quell’esperienza, finita quattro mesi prima della strage alla Banca dell’agricoltura. 28 novembre 1968. Al termine di una grande manifestazione di migliaia di studenti, viene occupato l’ex hotel Commercio, stabile abbandonato e in degrado, da due anni di proprietà del Comune. L’occupazione viene decisa e gestita dagli studenti fuorisede, ospiti della Casa dello studente di Viale Romagna. Con cognizione di causa si sceglie l’albergo Commercio; e non, come voleva l’ala capannea del movimento, Palazzo Reale. Obiettivo, quest’ultimo, puramente simbolico: un fuoco di paglia che sarebbe stato spento sul nascere. Molto concrete le motivazioni. Emarginazione e carenza di case dello studente, alte rette. «A Milano – si legge nel volantino distribuito durante il corteo – ci sono 2.300 posti letto per più di 20.000 studenti fuorisede. Più di 1.800 hanno rette superiori alle 60.000 lire al mese ed arrivano fino a 110.000 lire (l’equivalente di un buon stipendio di allora, ndr); dei 2.300 posti letto solo 900 sono statali». La situazione diventa esplosiva quando, per mancanza di posti letto, più di 300 studenti fuorisede e "bisognosi" non vengono accolti alla Casa dello studente di viale Romagna. Il bisogno di accoglienza e di alloggio diventa un elemento di solidarietà e si innesta nel movimento generale antiautoritario. «Oggi è acquisito il principio che ribellarsi è giusto, e tutto può e deve essere criticato». Con l’occupazione di piazza Fontana si prende e non si chiede più quello che spetta di diritto. Stabile di proprietà pubblica, in posizione centrale e strategica, l’hotel Commercio ha le caratteristiche giuste per costruire una lotta di lunga durata. Consente a larghi strati di proletariato studentesco e giovanile di uscire dalla marginalità e dall’isolamento. Gli studenti denunciare all’opinione pubblica le loro condizioni di disagio materiale e ambientale, di sfruttamento e povertà. Praticano l’obiettivo di costruire una nuova casa dello studente, trattano direttamente col potere amministrativo locale, intervengono «nel vivo di una politica urbanistica classista della città». L’iniziativa, se da un lato si colloca all’interno del movimento antiautoritario degli studenti, dall’altro ne prende le distanze spesso in polemica con quegli orientamenti segnati da un rivoluzionarismo generico, incarnato in particolare nella figura dello studente a tempo pieno. I protagonisti dell’occupazione sono in maggioranza studenti immigrati e pendolari. D’estrazione proletaria, molti si mantengono agli studi con lavori e lavoretti. Nei loro documenti, cercano di dare un senso strategico alla loro specifica battaglia; provano a fondare sui due pilastri portanti – lo studio e il lavoro – la lotta generale contro il sistema capitalistico e l’autoritarismo delle istituzioni; si impegnano a costruire ponti di collegamento tra i due mondi tenuti separati e isolati. Coerentemente con queste ambizioni, la Nuova Casa dello Studente di piazza Fontana presto si trasforma in Casa dello studente e del lavoratore (C.S.L): «Gli alloggi, i trasporti, le mense sono termini drammatici che accomunano gli studenti disagiati ed i lavoratori». La C.S.L diventa il luogo fisico dell’incontro tra mondo dello studio e mondo del lavoro. Non solo casa, abitazione. Anche «centro di organizzazione politica» e di controinformazione: «Per la posizione strategica nel centro cittadino la nostra casa è già sede d’informazione politica: i muri esterni sono i nostri giornali. E’ l’ora di cominciare in pratica ad intaccare il monopolio borghese dell’informazione». Nella prima fase dell’occupazione, si lavora a rendere abitabili i quattro piani dello stabile e a porre all’attenzione dell’opinione pubblica la questione sociale degli studenti immigrati e disagiati. Si crea attorno alla Casa un clima favorevole e solidale. Arrivano da singoli cittadini aiuti di ogni genere (suppellettili, coperte, viveri, sottoscrizioni…). Una mano materiale e politica la danno cooperative di lavoratori, organizzazioni sindacali di base come alcune commissioni interne dei tranvieri, l’Udi. Anche il sindaco Aniasi riconosce il problema e, mentre si dichiara pronto al dialogo, «promette di venire incontro alle più impellenti necessità». E – annotano ironicamente gli studenti nei loro dazebao – fa arrivare mediante l’Ufficio d’igiene «materiale disinfettante con la raccomandazione di non berlo perché velenoso!». Milano scopre che gli studenti non fanno solo casino ma hanno le loro buone ragioni da far valere. L’occupazione supera indenne il rigido inverno. Le stanze dell’ex hotel si riempiono di inquilini. E la casa/albergo assume la fisionomia di una libera comunità giovanile che si dà un regolamento interno, organizza la vita quotidiana, promuove iniziative politiche e culturali. Nascono forti amicizie e sbocciano amori anche duraturi. Si tessono relazioni esterne e si arriva a costruire una rete cittadina di collegamento, sia studentesco ed interuniversitario sia con organizzazioni e realtà di lotta: con l’Unione Inquilini contro il caroaffitti; con comitati di cittadini dell’Isola Garibaldi contro gli sfratti, con comitati di base di alcune fabbriche (CUB Pirelli). Il rapporto con una cooperativa di immigrati di Cinisello Balsamo (62.000 immigrati su 70.000 abitanti) apre agli studenti uno squarcio sulla realtà delle città/fabbriche dell’area metropolitana e delle difficili e dure condizioni di vita dell’immenso esercito di immigrati, i "negri" del Nord venuti dal Sud. La comunità giovanile di piazza Fontana riesce anche ad appropriarsi dei meccanismi della politica urbanistica, a dire la sua sullo sviluppo della città: «Il piano regolatore prevede di razionalizzare il centro storico in quello che è già: centro di direzione politica, amministrativa,culturale: il cervello della città capitalista. In questo piano non entra tutto ciò che gli è estraneo (per esempio l’Isola Garibaldi, quartiere popolare: a pensionati, artigiani, bottegai, piccoli commercianti, poveri impiegati è imposto lo sfratto, devono andarsene fuori, in periferia, per cedere il posto a uffici ed abitazioni di lusso). Il piano è la razionalizzazione classista della città. E’ la stessa logica della fabbrica: la città divisa come i reparti… il tutto deve ruotare attorno al centro che deve essere stanza dei bottoni e paradiso borghese. I subalterni espulsi: non devono assolutamente abitarci. Se vorranno visitarlo dovranno farlo in religioso rispetto e ne usciranno abbagliati, storditi, intimiditi». (Da un pezzo a Milano non ci sono più fabbriche. Ma questa analisi non mi pare per nulla invecchiata.) Il 1969 è anche l’anno dell’attuazione del decentramento amministrativo di Milano. Entrano in funzione i venti Consigli di zona e per la prima volta si avvia un processo di democratizzazione del potere locale accentrato a Palazzo Marino. E’ il frutto di un decennio di lotte dei comitati di quartiere e di esperienze di partecipazione democratica. La C.S.L fa breccia nella macchina politico-amministrativa della città. Nel febbraio del 1969 il Consiglio comunale approva un ordine del giorno che riconosce legittimità all’occupazione: l’iniziativa degli studenti lavoratori può trovare spazio all’interno del progetto comunale di trasformare l’albergo Commercio in un Centro direzionale e culturale pubblico. Mentre si tiene Piazza Fontana, alla Casa dello studente di Viale Romagna si forma un Comitato di base che gestisce una significativa vertenza sindacale (nell’assenza del sindacato ufficiale) per il miglioramento contrattuale del settore. Un tale livello di lotta sociale sindacale politica e culturale entra in crisi nella primavera del ’69, quando i rappresentanti del potere decidono di passare al contrattacco, mentre si intensificano campagne di stampa di attacco denigratorio contro la C.S.L, ormai stigmatizzata come "covo" di anarchici ed estremisti, drogati e fannulloni. Una delle prime trombe dell’assalto viene suonata dal consigliere comunale del Psi Bettino Craxi, che con un’interpellanza chiede di sgomberare l’albergo Commercio. Comincia l’accerchiamento e l’isolamento, anche attraverso atti di provocazione e di intimidazione. Eppure si resiste. Si vuole raggiungere l’obiettivo di rimanere nel cuore della città, come comunità e centro politico. Non si riesce tuttavia a dare uno sbocco vertenziale ed istituzionale all’esperienza. Pesano le divisioni ideologiche e le diverse linee di condotta politica (basti pensare al settarismo e alla stupida presunzione di voler fare la rivoluzione da piazza Fontana che caratterizzava alcuni partitini marxisti-leninisti). Non aiuta il divario comunicativo tra linguaggio duro (ad esempio, la C.S.L viene definita «pugnale nel cuore della città capitalistica») e realtà. Soprattutto, pesa la volontà politica dominante di stroncare il movimento di crescita democratica del paese e, nella specifica realtà milanese, di cancellare un’esperienza così innovativa e dalle straordinarie potenzialità di partecipazione civile e democratica, in linea perfetta – diremmo ora – con i principi fondamentali di una Carta Costituzionale che, allora, non citavamo. Con inaudita violenza, il 19 agosto 1969, nel colmo dell’estate e delle vacanze, la C.S.L, quasi del tutto vuota, viene sgomberata da plotoni di carabinieri e poliziotti in assetto di guerra. L’edificio viene subito demolito. Si inaugura così la stagione degli sgomberi. Le autorità politiche e amministrative, nazionali e locali, si tolgono la maschera e palesano il volto del potere che ricorre alla forza per "risolvere" i problemi, che usa la rozzezza e la stupidità, non la duttilità e l’intelligenza di coinvolgere i cittadini nelle decisioni. Attenzione: si parla di oggi; si parla di noi. I problemi posti quaranta anni fa dagli studenti sono ancora tutti sul tappeto, irrisolti e incancreniti. Ne cito due. A Milano (e non solo) l’urbanistica ridotta a cementificazione con un pervasivo consumo insostenibile di suolo è sotto gli occhi di tutti. E l’Expo incombe… Milano è la città più cara d’Italia per gli affitti a universitari fuorisede. Sono oltre 50 mila e hanno a disposizione solo 5.956 posti letto, di cui appena 2.756 statali. Piazza Fontana e dintorni (ex teatro Gerolamo, Corsia dei Servi) sono ancora in attesa di una sistemazione decorosa. Demolito il vecchio hotel Commercio, ci sono voluti 40 anni per costruire – quando si dice la fantasia – un nuovo albergo! Superlussuoso e supercaro, ovviamente. Il 1969 in Piazza Fontana si chiude con la strage e con la sua diciassettesima vittima, il ferroviere anarchico Pino Pinelli, «precipitato» in un modo tutto suo dal quarto piano della Questura.

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LA CITTA’ CHIUDE… L’UNIVERSITA’ APRE!

Martedì 10 febbraio terremo aperto il dip. di fisica (via celoria 16)  fino alle 23.30 per mettere a disposizione di tutti delle aule studio serali.

in aggiunta proponiamo:
*dalle 19: cena a sottoscrizione
*h 19.30: presentazione dell’iniziativa, presentazione del dossier sulle biblioteche del gruppo di lavoro della statale, chiacchierata no133
*h 21: cineforum, a scelta "V per Vendetta" oppure "Paz"
*h 23.30 chiusura

questo è il volantino dell’iniziativa, invitiamo tutti a stamparlo e appenderlo nel proprio dipartimento:

Volantino10Feb_mod1030.pdf

 

per info: retazione@libero.it  

 

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INTERFACOLTA’

la prossima assemblea interfacoltà è convocata per VENERDI’ 30 ALLE 14 IN BOVISA,

(e NON martedì 27 come precedentemente comunicato)

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Rassegna stampa 20-21 gennaio 2009

 Dal manifesto milanese del 21, nazionale del 21 e nazionale del 20 gennaio.


ECOLOGIA · Perché funziona male l’esperimento su due ruote del Comune di Milano

Bike Sharing, il cimitero triste delle bici gialle rimaste al palo
Stefano Bettera
Ma dov’è finito il Bike Sharing? Molti si porranno
la stessa domanda vedendo quei cimiteri delle biciclette ferme nelle
stazioni di parcheggio di cui è stata disseminata Milano, dopo lunghi
mesi di lavori, e molti tira e molla, ricorsi al Tar compresi. La
verità è questa: nessuno o quasi le usa e dopo più di due mesi
dall’attivazione del servizio è quasi impossibile, anche cercandoli
attentamente, vedere in giro per la città ciclisti a cavallo delle bici
gialle e bianche con il logo Bikemi. Le ragioni sono sicuramente
molteplici. Prima fra tutte l’infelice scelta di far partire il
bikesharing a ridosso del Natale, in pieno inverno, con la città
imbiancata da interminabili nevicate, temperature rigide e molte
giornate di pioggia. In questo periodo dell’anno, poi, si sa, tutti
scelgono l’auto per trasportare regali e pacchettini, con buona pace
per la mobilità sostenibile. Se qualche coraggioso si è avventurato per
le strade, si è trattato certamente di un abitudinario del pedale, già
dotato del proprio mezzo, ovviamente, poco interessato ad usare il
nuovo servizio di Atm. Comunque, dopo mesi di dichiarazioni ed annunci
da parte del Comune e di Atm, sulla data di partenza e le dimensioni
del servizio, il 14 novembre c’è stata l’inaugurazione, in piazza San
Babila: disponibili 900 biciclette in poco più di 70 stazioni. Un po’
poco per il progetto originario che di biciclette ne prevedeva 5000,
disseminate in 250 punti. Perché? Silenzio assoluto. Ancora più vaghi i
tempi e i modi per l’allargamento del servizio. C’è da dire che i
recenti tagli di personale effettuati dal Comune hanno penalizzato
soprattutto il settore che si occupa della pianificazione rallentando
notevolmente le opere non considerate «prioritarie». Tutto sospeso a
parte la realizzazione dei grattacieli e buonanotte alla difesa strenua
dell’ambiente contenuta nel dossier di Expo 2015. Tornando al
bikesharing, la primavera del 2009, cioè fra due mesi, dovrebbe essere
il momento del rilancio promesso da tutti. Peccato, però, che di nuovi
cantieri per la posa delle rastrelliere in giro non se ne vedano e
salvo magie non se ne vedranno. Per scoraggiare i ciclisti, soprattutto
i turisti occasionali non interessati ad un abbonamento annuale, l’Atm
le ha proprio pensate tutte: ad oggi, infatti non sono attive le forme
di abbonamento ridotto (giornaliero e settimanale) pubblicizzate sul
sito. È ammesso solo un circuito di carte di credito per il pagamento
online. Soprattutto, non è possibile utilizzare il servizio dopo le 23,
impedendo a chi esce la sera di usare la bicicletta per tornare a casa.
Per tutte queste ragioni e se la percentuale degli utenti continua ad
essere quella di oggi, viene davvero da chiedersi che senso abbia
l’estensione del servizio. Gli ultimi dati ufficiali di Atm di fine
2008 parlano di 2.700 abbonati, oltre 3.000 prelievi e 43.000 visite al
sito web. Su una città come Milano e provincia stiamo parlando di un
risultato che sfiora il fallimento. Soprattutto se comparato con altre
città europee come Lione, Parigi o Barcellona dove sia il numero delle
biciclette che gli utilizzatori sono misurabili a decine di migliaia.
Non si può certo dire che il costo (25 la tessera annuale che dà
diritto all’utilizzo gratuito della prima mezz’ora) sia un deterrente.
Milano, pur non essendo una città di ciclisti come ad esempio
Amsterdam, ha visto crescere in modo esponenziale gli utilizzatori
delle due ruote. Eppure il bikesharing è, nei fatti, l’unico progetto
attuato tra quelli contenuti nel piano per la mobilità ciclistica che
ormai è lettera morta. Sono un miraggio le nuove piste ciclabili, più
volte promesse, anche all’interno di quelle misure a favore della
mobilità sostenibile che il provvedimento Ecopass avrebbe dovuto
sostenere sono un miraggio. Abbiamo visto tutti, a dicembre, come è
andata a finire e quale sia la vera sensibilità che il consiglio
comunale dimostra nei confronti delle proposte, ad essere onesti, anche
coraggiose, dell’assessore Croci. «Questa amministrazione – attacca
Eugenio Galli, presidente di Ciclobby – non ha alcun reale interesse a
trasformare Milano in una città ciclabile e a promuovere una vera
politica della mobilità sostenibile a Milano. La risposta è sempre la
stessa, che non non ci sono i soldi per realizzare nuove piste
ciclabili. Ma le piste ciclabili non risolvono il problema». Conclude
Galli: «Per favorire l’uso della bici basterebbe disegnare le piste
ciclabili sulle strade e farle rispettare da tutti. Ma la verità è che
questa visione non c’è e va contro gli interessi di molti. Un esempio?
Perché nella nuova Stazione Centrale appena inaugurata non è stato
previsto un parcheggio per le bici?» Una buona domanda. Che,
probabilmente, come sempre, non avrà risposta.?


Lezioni DI RAZZA
DISCRIMINATI
A TEMPO INDETERMINATO Alcune considerazioni sulla proposte di riforma
dell’università e della scuola primaria a partire da un saggio dello
studioso W.E.B Du Bois recentemente pubblicato


Enrica Rigo
In
un saggio del 1903 sul ruolo dell’educazione per il riscatto della
«razza Negra» W.E.B. Du Bois scriveva: «Formeremo uomini solo se
assumiamo a oggetto del lavoro nelle scuole la condizione stessa degli
esseri umani – l’intelligenza, la sostanziale solidarietà, la
conoscenza del mondo e le relazioni che gli uomini intrattengono con
esso – è questo il curricolo di quell’Alta Formazione su cui si devono
costruire le fondamenta di una vita reale» (The Talented Tenth, in The
Negro Problem, New York 1903). La presa di posizione dell’intellettuale
e leader afroamericano è accompagnata da un’instancabile polemica
contro qualunque ruolo salvifico del lavoro, implicito nell’opposta
visione impersonificata dall’altro leader nero a lui contemporaneo,
Booker T. Washington, secondo la quale agli studenti dovrebbe essere
insegnato «come guadagnarsi da vivere» (da Up to Slavery pubblicato
originariamente da Washington nel 1901). Per nulla invecchiata, la
riflessione di Du Bois è anzi profondamente in sintonia con l’Onda del
movimento che dalla scuola all’università ha investito, tra Settembre e
Dicembre, l’intero sistema formativo italiano criticando proprio quel
nesso tra formazione e mondo del lavoro che più di un decennio di
riforme ha tentato di far passare come desiderabile, oltre che come
ineluttabile necessità.
Diritti transitori
Prendere come spunto
di riflessione la polemica tra Du Bois e Washington consente di
tematizzare entro uno schema coerente anche un’altra proposta che ha
impegnato le cronache durante le ultime settimane, ovvero quella di
istituire classi «ponte» per i bambini immigrati nelle scuole primarie,
e di discuterla entro la questione più generale dell’accesso degli
stranieri ai diritti di cittadinanza e, in particolare, all’istruzione.
Nella mozione approvata in parlamento su proposta della Lega Nord – e
ingannevolmente ammantata di ragionevolezza politica da una relazione
introduttiva imbottita di dati – salta agli occhi la definizione della
misura quale politica di «discriminazione transitoria positiva». Senza
approfondire nel merito l’abuso con il quale viene utilizzata
l’espressione discriminazione positiva (che pur con delle ambivalenze
affonda le sue radici nella storia del movimento per i diritti civili
americano e nella tradizione della Critical Race Theory) è proprio
l’aggettivo «transitoria» che appare paradigmatico e inquietante. A
essere considerata transitoria non è infatti la discriminazione, che se
fosse introdotta perdurerebbe ovviamente a lungo, ma una condizione
intrinseca alle migrazioni stesse per cui i migranti sono sempre visti
come titolari di diritti pro tempore.
Nel caso specifico,
l’introduzione di un canale di accesso parallelo e subalterno
all’istruzione pubblica sarebbe addirittura giustificata da una duplice
condizione transitoria: quella di essere immigrati e per giunta
bambini. Questa transitorietà «destinata a protrarsi indefinitamente» –
per utilizzare la bella espressione del sociologo algerino Abdelmalek
Sayad – è carica di conseguenze sul piano politico, dal momento che ciò
di cui si è espropriati quando si viene inchiodati alla contingenza
presente è esattamente la possibilità di scegliere il proprio futuro,
come non a caso denuncia anche uno degli slogan del movimento dei mesi
scorsi.
Stanziali per legge
Questo approccio alle migrazioni
acquisisce un significato ulteriore se si considerano alcune linee di
tendenza che emergono dalle più recenti politiche europee e che puntano
a realizzare un modello che la Commissione definisce come circular
migration (una serie di articoli sull’argomento sono reperibili nel
sito www.carim.org/circularmigration). Non si tratta più della
«transitorietà» con la quale è stata gestita in molti paesi europei la
manodopera immigrata nel dopoguerra, per cui i «lavoratori ospiti»
erano incentivati a rientrare nei paesi di provenienza una volta
soddisfatto il fabbisogno di forza lavoro; tanto meno siamo di fronte a
una transitorietà che conduce virtuosamente verso la cittadinanza. Una
delle specificità del sistema della Blue card che la Commissione
europea vorrebbe introdurre per gestire a livello comunitario la
manodopera immigrata «altamente qualificata», e che la differenzia, per
esempio, dalla Green card statunitense, è esattamente quella di non
dare accesso alla cittadinanza né, almeno in prima battuta, alla
residenza permanente.
A ben guardare, è proprio in questo
dispositivo, pensato per attrarre tecnici e ingegneri formati in paesi
di economie emergenti come quella di Cina o India, che si possono
scorgere caratteristiche specifiche e esiti politici di una formazione
improntata a «rispondere in modo effettivo e puntuale alla domanda
fluttuante di lavoratori immigrati altamente qualificati (ed a
compensare le carenze di competenze attuali e future)» (si vedano la
relazione alla proposta di direttiva comunitaria e i lavori della High
Level Conference on Legal Immigration tenutasi a Lisbona nel settembre
2007). Il «premio» che i lavoratori altamente qualificati ottengono con
la Blue card è costituito, infatti, da un alto grado di flessibilità e
mobilità fisica nello spazio europeo, coniugata all’immobilità del
proprio status giuridico – e quindi sociale – di fronte ai diritti di
cittadinanza. In altre parole, l’artificiosa temporalità imposta
dall’ordinamento giuridico alle migrazioni acquisisce, in questo
contesto, il significato di gestione duratura del transito e della
circolazione di manodopera attraverso un dispositivo che differenzia
permanentemente l’accesso dei migranti ai diritti. Nessuno stupore,
quindi, che tra gli obbrobri giuridici già sperimentati dal sistema
possa essere concepita anche una «discriminazione transitoria positiva»
di cui i bambini dei migranti porteranno addosso i segni in permanenza.

Prima di tornare alle splendide pagine di Du Bois sull’eccellenza
che sola può salvare e far progredire le razze, è opportuno introdurre
un ulteriore elemento di riflessione. Per ottenere la Blue card, oltre
a una formazione altamente qualificata testimoniata da un diploma
riconosciuto, sarà necessario presentare un contratto di lavoro con una
retribuzione prevista di almeno tre volte superiore al salario minimo.
Ma che cosa accadrebbe se un illuminato liberale, convinto assertore
dell’autonomia contrattuale, decidesse di assumere come badante
un’astrofisica laureatasi in un’università dell’Unione Sovietica o come
giardiniere un raffinato linguista formatosi in qualche paese del Medio
Oriente e di pagarli il triplo del salario minimo? Simili casi non sono
certo previsti dalla direttiva che, prevedendo accessi separati alla
mobilità, si illude di poter ignorare e liquidare come una massa
indifferenziata di cittadini «illegali» i migranti vivono e lavorano
qui ricevendo anche meno del salario minimo.
Adulatori della mediocrità
La
domanda è certo posta in modo provocatorio, ma è contro l’incapacità di
vedere l’eccellenza che Du Bois dirige il suo sarcasmo più feroce:
ovvero, contro «I ciechi adulatori della Mediocrità che gridano
allarmati: queste sono eccezioni, guardate qui morte, disastri e
crimine – sono loro la regola compiaciuta!». Ed è sempre l’autore del
classico manifesto nero The Souls of Black Folk (New York 1903) a
ribattere che è stata proprio la stupidità di una nazione che ha
sistematicamente umiliato i talenti ad avere fatto della mediocrità la
regola. Una stupidità simile a quella per cui nelle università italiane
il numero di stranieri iscritti è pari al 2,2 %, contro una media Ocse
superiore al 7,5 % e che in paesi come Inghilterra e Germania raggiunge
punte percentuali a due cifre. Un dato, questo, senza dubbio da
imputare alle incredibili difficoltà delle procedure per ottenere un
visto per studio o per convertire un permesso di soggiorno per studio
in lavoro, ma specchio, altresì, dell’inadeguatezza di un’offerta
formativa che pur blaterando di flussi di capitale si ostina a chiudere
gli occhi di fronte a quelli umani. E ancora, la stessa stupidità che
mentre è intenta a proporre accessi subalterni all’istruzione primaria
non si accorge che le occupazioni e le mobilitazioni nelle scuole hanno
coinvolto istituti dove l’incidenza dei bambini stranieri è altissima,
e dove le loro famiglie sono impegnate, accanto alle altre, in difesa
della scuola pubblica. Perché, scrive ancora Du Bois: «Non abbiamo
diritto a stare in disparte in silenzio mentre si gettano i semi di un
raccolto di disastro per i nostri bambini, neri e bianchi».


INTELLETTUALI ISRAELIANI
Appello sul «Guardian»: per il bene della pace, boicottateci


«Noi,
cittadini israeliani, ci appelliamo ai leader europei: usate le
sanzioni contro le politiche brutali d’Israele e unitevi alle proteste
attive di Bolivia e Venezuela». Inizia così l’appello, pubblicato sul
quotidiano britannico Guardian, di una parte della sinistra israeliana.
«Facciamo appello ai cittadini europei: per favore aderite alla
richiesta delle organizzazioni per i diritti umani palestinesi –
appoggiata da oltre 540 cittadini israeliani
(www.freegaza.org/en/home/)-: boicottate le merci e le istituzioni
israeliane; prendete esempio dalle risoluzioni approvate dalla città di
Atene, Birmingham e Cambridge (Usa). Aiutatetici!». Tra i firmatari
dell’appello il prof. Rachel Giora (Tel Aviv University), il prof.
Vered Kraus (Haifa University), la dr. Anat Matar (Tel Aviv
University), il prof. Yitzhak Y. Melamed (John Hopkins University)
Michael Varshavsky e Sergio Yahni.

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