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Il monito dei rettori: con i tagli via le borse di dottorato

Dal manifesto del 27. Qui un articolo sulle "lauree triennali da valorizzare", con alcuni dati si ingegneria.


I Magnifici: «No a tagli indiscriminati». A rischio in particolare le facoltà di Medicina: «Si azzerano le prestazioni sanitarie offerte ai cittadini» In una lettera la richiesta al ministro Gelmini di rinunciare alla decurtazione dei fondi. «Le conseguenza sarebbero pesantissime e le pagherebbero i giovani»

Stefano Milani

Pochi giorni fa era stato Giorgio Napolitano ad alzare la voce. «No a tagli indifferenziati e indiscriminati», aveva tuonato il capo dello Stato in visita all’università di Perugia. Un monito che se non ha scalfito più di tanto il ministro Gelmini, ostinata ad andare avanti a suon di sforbiciate, ha almeno rinfrancato i rettori italiani. Che ora tornano a farsi sentire e battono cassa. Una ricetta semplice, quella dei Magnifici dell’Aquis (l’Associazione per la qualità delle università italiane statali) scritta nero su bianco in una lettera indirizzata a viale Trastevere, all’interno della quale hanno inserito delle richieste precise. E un punto su cui sono irremovibili: rinunciare ai tagli dei fondi per le università previsti per il 2010 che «saranno devastanti se resteranno nelle proporzioni oggi previste». Secondo quanto emerge da una mappa messa a punto dall’associazione, in metà delle regioni italiane le università sono sottofinanziate. Se il trend non cambierà, spiegano, il rischio concreto sarà quello di non avere più a disposizione borse di dottorato per il prossimo anno. «E le conseguenze dell’attuale crisi economica le subiranno innanzitutto i giovani». La strada da percorrere è esattamente inversa a quella imboccata dal governo, «bisogna sostenere i dottorati di ricerca è importante perché sono proprio questi a permettere di ottenere le migliori performance nella ricerca». Ad essere più in difficoltà sono gli atenei che hanno al loro interno le facoltà di Medicina. Per quelle strutture i rettori chiedono ai ministeri della Salute e dell’Università di reintegrare «quei 350 milioni di euro complessivi sui loro bilanci che sono destinati a pagare le prestazioni di carattere sanitario offerte ai cittadini attraverso il lavoro dei clinici universitari». I rettori vivono sulla Terra e sanno bene che un periodo di vacche magre come questo impone anche di tenere i conti in ordine. Perciò, dicono, «la trasparenza dei bilanci è un pre-requisito per qualsiasi amministrazione pubblica più che mai in un periodo di crisi». Bisogna però «ripartire le risorse a disposizione sulla base di criteri di merito» mettendo a punto al più presto un «efficace sistema di valutazione dei risultati conseguiti sul piano della didattica e della ricerca». Solo così si possono rendere competitivi sul piano internazionale gli atenei del Belpaese. E se poi il ministro Gelmini dei tagli non può proprio farne a meno, almeno che non siano «indiscriminati, non siano una mannaia che si abbatte in modo uguale su tutti gli atenei indipendentemente dalle modalità di gestione e senza alcun riconoscimento del merito». Perché, sottolineano i Magnifici, «non possiamo più continuare con azioni di governo che in realtà governano poco, perché tagliano trasversalmente i finanziamenti agli atenei senza alcuna considerazione della qualità del lavoro che negli stessi atenei si svolge». Sforbiciate che rischiano di mettere ulteriormente in ginocchio un sistema universitario che non è messo proprio bene. E un’ulteriore iniezione di pessimismo l’ha data ieri anche la Conferenza nazionale degli assessori alla Cultura e al Turismo riunitasi a Torino che ha lanciato un altro allarme rosso: l’università non attrae più. I dati parlano chiaro, negli ultimi due anni i nuovi iscritti sono scesi del 4,4%. Le immatricolazioni del 2009 toccano quota 312.104, record negativo da sette anni a questa parte. Le regioni italiane dove si registra il decremento più consistente sono quelle meridionali: 6,6% in meno negli ultimi dodici mesi. Nell’anno accademico 2008/2009, rapportando gli immatricolati con i diplomati dell’anno precedente, solo due studenti su tre (67%) hanno scelto di proseguire gli studi dopo la scuola mentre nel 2007 erano ben il 75%. Sempre più giovani quindi preferiscono fermarsi dopo il diploma della scuola secondaria. Con le prospettive che dà oggi l’università italiana, come dargli torto.

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Napolitano scopre i tagli alla ricerca

 Dal manifesto del 24.


Il capo dello Stato chiede al governo di rivedere le sforbiciate del duo Tremonti-Gelmini. Ma per quest’ultima si tratta solo di spendere meglio i soldi. I rettori ringraziano il Presidente e rinnovano l’allarme sulla sopravvivenza degli atenei che continuano a perdere cervelli

Stefano Milani

Onda su onda, i tagli all’università risalgono il Colle. Che alla prima occasione utile dà voce al disagio comune, di studenti e professori, e tuona: «Mi auguro che maturino le condizioni per un ripensamento delle decisioni di bilancio ispirate ad una logica dei tagli». Non fatevi abbagliare dalla sua solita eleganza verbale, stavolta Giorgio Napolitano va giù duro e dà una bella strigliata al governo e alla sua politica del taglio indiscriminato dei fondi destinati agli atenei. Intervenuto ieri mattina alla celebrazione per i settecento anni dell’Università di Perugia, il capo dello Stato ha invitato a definire la riforma del sistema universitario senza abbandonarsi a «generalizzazioni liquidatorie». Bisogna guardare i singoli atenei in base ai risultati e ai problemi della ricerca «con coraggio». Considerare ciò che accade in questo settore nel resto d’Europa e nel mondo, inoltre, «può suggerire» delle soluzioni. Perché «la ricerca e la formazione – prosegue Napolitano – sono la leva fondamentale per la crescita dell’economia. Questa è una verità difficilmente contestabile». Il messaggio è fin troppo chiaro e mira ad «evitare la dispersione di talenti e dei risultati del nostro sistema scolastico e universitario». Perché questi troppo spesso «non sono tradotti in occasioni di lavoro e di sviluppo». La chiave di volta per risolvere il problema, secondo il presidente, è «una accurata politica che sappia tenersi saggiamente in equilibrio tra il rigore della spesa e la necessità dell’investimento lungimirante». Un discorso applauditissimo dai ragazzi. Uno di loro poi prende la parola. Si chiama Amabile Fazio ed è il rappresentante degli studenti dell’ateneo perugino. Davanti al Presidente lancia l’allarme: diminuiscono gli iscritti nelle università pubbliche mentre aumentano in quelle private e telematiche. Entrando nel merito dei problemi, mette in luce quelli più diffusi tra gli studenti, come il numero chiuso di alcuni corsi di laurea («in contrasto con l’articolo 34 della Costituzione» che «garantisce a tutti l’accesso incondizionato al sapere»), il «mal funzionamento» del sistema universitario del «3+2» e il rischio che le università pubbliche italiane si trasformino in fondazioni private. Ma l’ottimismo per fortuna non manca ai ragazzi, perché «una università migliore è possibile costruirla». Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il ministro Gelmini. Che ieri, due minuti dopo l’affondo del Quirinale, è uscita dal letargo delle ultime settimane precisando che «le preoccupazioni del presidente Napolitano sono anche le preoccupazioni del governo». Sarà. Il ragionamento dell’inquilina di viale Trastevere non fa una grinza: «La Ricerca e l’Università sono alla base dello sviluppo di un Paese». Però, c’è un però. «In questa fase di difficoltà economica internazionale – aggiunge – è necessario investire il denaro pubblico con grande attenzione e oculatezza». Tradotto: bisogna tagliare. Verbo coniugato in ogni forma anche dal ministro della pubblica amministrazione Brunetta che si affretta a rassicurare tutti: «Non ci sono stati tagli indiscriminati». Certo, ammette, «abbiamo tagliato 36 miliardi di euro per il triennio 2009-2011 di spesa corrente», ma sono stati costretti a farlo. L’hanno fatto per gli italiani, perché «così abbiamo salvato l’Italia». Sembra impossibile ma «il governo ha un’enorme attenzione sulla ricerca», aggiunge senza arrossire l’impavido Brunetta. Governo a parte, il monito di Napolitano è piaciuto proprio a tutti. Ai rettori in particolare. Il finanziamento dell’università «è un tema centrale» dal quale dipende «la sopravvivenza della massima istituzione formativa del nostro Paese», sottolinea il presidente della Conferenza dei rettori (Crui), Enrico Decleva, e ringrazia il presidente della Repubblica «per la sua continua attenzione alle questioni riguardanti il sistema universitario». Un «grazie presidente» arriva anche dagli studenti. «I tagli messi in atto dagli ultimi governi – fa notare Roberto Iovino coordinatore dell’Uds – hanno messo seriamente a rischio la centralità di scuola e università come motore per uno sviluppo sostenibile nel nostro paese». La domanda ora è: il governo ascolterà le parole di Napolitano? Visti i precedenti la risposta pare, ahinoi, piuttosto scontata.

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Napolitano: rivedere i tagli. Ma il governo e il Corriere continuano a dare i numeri

Il presidente della Repubblica invita il governo a rivedere i tagli indiscriminati: primo e secondo articolo nel Corriere di oggi, che però dà retta solo al governo, come al solito, e in un arrogante e stomachevole sfoggio di partigianeria continua a fare mera propaganda progovernativa diffondendo dati scandalosamente falsi e smentiti innumerevoli volte, come quello dei 37 corsi di laurea con un solo iscritto, invenzione di Gian Antonio Stella e Perotti, che ciononostante viene ancora interpellato come esperto, mentre non controlla nemmeno le proprie fonti, o peggio mente sapendo di mentire. Ricordiamolo: quell’"1" è solo un valore di controllo nelle statistiche del ministero, che significa che su un dato corso di laurea non ci sono dati: Matrix tempo fa andando a vedere dal vivo ha verificato che quei corsi sono frequentati da decine di studenti (e infatti adesso Mentana ha dovuto dimettersi da Canale 5).
Inoltre si continua a dare i numeri sulla scuola, parlando di un numero di insegnanti per studente superiore del 30% rispetto alla media europea, senza dire che negli altri paesi europei non sono conteggiati gli insegnanti di sostegno, 110.000, e quelli di religione, 25.000 (Osvaldo Roman, La ricreazione è finita), anche perché gli alunni disabili sono in istituti separati o comunque molti lavoratori del settore dell’istruzione non fanno parte del corpo docente, perciò ad esempio la Francia con un numero paragonabile di studenti sembra avere 600.000 insegnanti contro i nostri 800.000, mentre in realtà gli addetti del settore scolastico sono 1.600.000 contro 1.100.000 italiani (Patroncini, Se gli insegnanti vi sembran troppi).
Con tutte queste bugie il governo e il Corriere continuano a nascondere la semplice verità del sottofinanziamento cronico dell’università italiana.

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Atenei contro Sarko

Dal manifesto dell’11 febbraio. Vedi anche http://www.npa2009.org/content/la-r%C3%A9volte-des-universitaires e http://www.auvonslarecherche.fr/spip.php?article2412 .


 

FRANCIA

Cortei a Parigi, Marsiglia, Bordeaux… Ricercatori e studenti saldano le loro proteste
Atenei contro Sarko

Anna Maria Merlo

PARIGI I ricercatori universitari, che Sarkozy con disprezzo a gennaio ha definito coloro che «cercano e non trovano niente», sono scesi ieri in piazza, assieme agli studenti. Un imponente corteo a Parigi, dai giardini del Luxembourg fino all’Assemblea nazionale, con almeno 50mila persone, e altri cortei in città di provincia, da Marsiglia a Rennes, passando per Lione e Bordeaux. A Parigi erano venute delegazioni dal nord, dall’est, dal centro e dall’ovest della Francia. I manifestanti chiedono alla ministra della ricerca Valérie Pécresse di ritirare il decreto di riforma, che cambia la situazione dei ricercatori, mettendoli alla mercé dei presidenti delle università, sia per la loro carriera che per i contenuti delle ricerche. La protesta si è allargata anche ad altri temi: gli studenti contestano la riforma della formazione degli insegnanti delle scuole primarie e secondarie, dove viene di fatto abolito l’anno di stage (retribuito) e il periodo di studio portato da 3 a 5 anni con il master obbligatorio. I ricercatori protestano contro lo smantellamento del Cnrs (Consiglio nazionale della ricerca scientifica), che il governo vorrebbe trasformare in un’agenzia di distribuzione di finanziamenti, per di più in ribasso. Inoltre, la contestazione riguarda anche i tagli al personale, che colpiscono non solo la scuola ma anche le università e la ricerca, con mille posti in meno solo quest’anno. Valérie Pécresse ha già fatto qualche passo indietro. Pur affermando che la riforma «che nessuno aveva osato fare» si farà a tutti i costi, alla vigilia della giornata di mobilitazione ha nominato una mediatrice, Claire Bazy-Malaurie, presidente alla Corte dei conti, per prolungare per «due mesi» la «concertazione» che i ricercatori affermano non essere mai esistita. Ieri, nei cortei si è verificata la «congiunzione» tra studenti e ricercatori che Sarkozy e il governo tanto temevano, una decina di giorni dopo lo sciopero generale riuscito del 29 gennaio, mentre la Guadalupa e la Martinica sono in ebollizione e i sindacati, che saranno ricevuti all’Eliseo il 18 febbraio, hanno già annunciato un’altra giornata di mobilitazione per il 19 marzo. «No allo smantellamento della ricerca e del Cnrs», «no agli insegnanti robot», i cortei hanno scandito slogan contro la politica al ribasso di Sarkozy. Contro il «disprezzo» manifestato dal presidente nei confronti dei ricercatori e delle università, accusati di non produrre abbastanza, mentre la Francia è al settimo posto mondiale per la qualità della ricerca universitaria (classifica di Shangai) malgrado sia al diciottesimo per il livello dei finanziamenti. I cortei hanno denunciato i tagli e le minacce sulla libertà di ricerca. Temono l’arrivo in forza dei finanziamenti privati, per indirizzare la ricerca. Ormai, sulle 85 università francesi, 23 sono in sciopero illimitato dall’inizio di febbraio e 53 mobilitate. Valérie Pécresse si era fatta forte dell’appoggio dei presidenti dell’università. Ma lunedì, in una riunione alla Sorbona, nove presidenti di università (Paris III, IV, cioè la Sorbona, VIII, X e XII, Monpellier III, Besançon, Rouen e Grenoble III), a cui si è aggiunta ieri Orsay, hanno sottoscritto un appello per il «ritiro» della riforma: chiedono di associare «l’insieme della comunità universitaria e dei protagonisti della ricerca» a una riflessione sulle riforme, che tutti considerano necessarie. Ma contestano il metodo sbrigativo e le ingiunzioni venute dall’alto, con il solo scopo di risparmiare e di aumentare l’organizzazione gerarchica. Il premio Nobel per la fisica, Albert Fret, si è unito alla protesta, così come il genetista Axel Kahn. La riforma di Pécresse è riuscita a generare un fronte ostile che non riunisce solo gli oppositori di Sarkozy, ma anche una buona fetta della destra universitaria. Ricercatori e professori non hanno apprezzato i termini sprezzanti con cui Sarkozy e Pécresse hanno trattato gli universitari, accusati di essere pigri e timorosi delle valutazioni. Con la riforma, i presidenti delle università dovranhno valutare il lavoro di ricerca ogni quattro anni e stabilire, sulla base del risultato, la proporzione tra ore dedicate alla ricerca e ore di insegnamento (se non ci sono sufficienti pubblicazioni, al ricercatore verrà attribuito un maggior numero di ore di insegnamento). L’accentramento della valutazione nelle mani dei presidenti di università viene contestato, perché può favorire il sistema dei baroni e il clientelismo. Da quando è iniziato lo sciopero, le università fanno a gara per inventare nuove forme di protesta. Per esmepio, a Paris III-Censier alcune lezioni sono state tenute in strada, nella vicina Place d’Italie, per evitare di far perdere tempo agli studenti. In altre università è stato fatto ricorso al freezing, cioè a delle immobilizzazioni durante alcuni minuti.

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Il ’68 All’hotel Commercio

Dal manifesto del 31 gennaio.


Il ’68 ALL’HOTEL COMMERCIO

C’era una volta a Milano, in piazza Fontana, prima della strage, un luogo occupato dagli studenti fuorisede e trasformato per nove mesi in una casa e una comunità. Un’esperienza dimenticata, che parla di oggi: Onda, sgombero del Conchetta, uso del territorio

Giuseppe Natale

L’occupazione dell’hotel Commercio, in piazza Fontana a Milano, è uno degli eventi più dimenticati del ’68. La concretezza rivendicativa dell’Onda studentesca, e il recente sgombero del centro sociale Conchetta, mi hanno fatto ripensare a quell’esperienza, finita quattro mesi prima della strage alla Banca dell’agricoltura. 28 novembre 1968. Al termine di una grande manifestazione di migliaia di studenti, viene occupato l’ex hotel Commercio, stabile abbandonato e in degrado, da due anni di proprietà del Comune. L’occupazione viene decisa e gestita dagli studenti fuorisede, ospiti della Casa dello studente di Viale Romagna. Con cognizione di causa si sceglie l’albergo Commercio; e non, come voleva l’ala capannea del movimento, Palazzo Reale. Obiettivo, quest’ultimo, puramente simbolico: un fuoco di paglia che sarebbe stato spento sul nascere. Molto concrete le motivazioni. Emarginazione e carenza di case dello studente, alte rette. «A Milano – si legge nel volantino distribuito durante il corteo – ci sono 2.300 posti letto per più di 20.000 studenti fuorisede. Più di 1.800 hanno rette superiori alle 60.000 lire al mese ed arrivano fino a 110.000 lire (l’equivalente di un buon stipendio di allora, ndr); dei 2.300 posti letto solo 900 sono statali». La situazione diventa esplosiva quando, per mancanza di posti letto, più di 300 studenti fuorisede e "bisognosi" non vengono accolti alla Casa dello studente di viale Romagna. Il bisogno di accoglienza e di alloggio diventa un elemento di solidarietà e si innesta nel movimento generale antiautoritario. «Oggi è acquisito il principio che ribellarsi è giusto, e tutto può e deve essere criticato». Con l’occupazione di piazza Fontana si prende e non si chiede più quello che spetta di diritto. Stabile di proprietà pubblica, in posizione centrale e strategica, l’hotel Commercio ha le caratteristiche giuste per costruire una lotta di lunga durata. Consente a larghi strati di proletariato studentesco e giovanile di uscire dalla marginalità e dall’isolamento. Gli studenti denunciare all’opinione pubblica le loro condizioni di disagio materiale e ambientale, di sfruttamento e povertà. Praticano l’obiettivo di costruire una nuova casa dello studente, trattano direttamente col potere amministrativo locale, intervengono «nel vivo di una politica urbanistica classista della città». L’iniziativa, se da un lato si colloca all’interno del movimento antiautoritario degli studenti, dall’altro ne prende le distanze spesso in polemica con quegli orientamenti segnati da un rivoluzionarismo generico, incarnato in particolare nella figura dello studente a tempo pieno. I protagonisti dell’occupazione sono in maggioranza studenti immigrati e pendolari. D’estrazione proletaria, molti si mantengono agli studi con lavori e lavoretti. Nei loro documenti, cercano di dare un senso strategico alla loro specifica battaglia; provano a fondare sui due pilastri portanti – lo studio e il lavoro – la lotta generale contro il sistema capitalistico e l’autoritarismo delle istituzioni; si impegnano a costruire ponti di collegamento tra i due mondi tenuti separati e isolati. Coerentemente con queste ambizioni, la Nuova Casa dello Studente di piazza Fontana presto si trasforma in Casa dello studente e del lavoratore (C.S.L): «Gli alloggi, i trasporti, le mense sono termini drammatici che accomunano gli studenti disagiati ed i lavoratori». La C.S.L diventa il luogo fisico dell’incontro tra mondo dello studio e mondo del lavoro. Non solo casa, abitazione. Anche «centro di organizzazione politica» e di controinformazione: «Per la posizione strategica nel centro cittadino la nostra casa è già sede d’informazione politica: i muri esterni sono i nostri giornali. E’ l’ora di cominciare in pratica ad intaccare il monopolio borghese dell’informazione». Nella prima fase dell’occupazione, si lavora a rendere abitabili i quattro piani dello stabile e a porre all’attenzione dell’opinione pubblica la questione sociale degli studenti immigrati e disagiati. Si crea attorno alla Casa un clima favorevole e solidale. Arrivano da singoli cittadini aiuti di ogni genere (suppellettili, coperte, viveri, sottoscrizioni…). Una mano materiale e politica la danno cooperative di lavoratori, organizzazioni sindacali di base come alcune commissioni interne dei tranvieri, l’Udi. Anche il sindaco Aniasi riconosce il problema e, mentre si dichiara pronto al dialogo, «promette di venire incontro alle più impellenti necessità». E – annotano ironicamente gli studenti nei loro dazebao – fa arrivare mediante l’Ufficio d’igiene «materiale disinfettante con la raccomandazione di non berlo perché velenoso!». Milano scopre che gli studenti non fanno solo casino ma hanno le loro buone ragioni da far valere. L’occupazione supera indenne il rigido inverno. Le stanze dell’ex hotel si riempiono di inquilini. E la casa/albergo assume la fisionomia di una libera comunità giovanile che si dà un regolamento interno, organizza la vita quotidiana, promuove iniziative politiche e culturali. Nascono forti amicizie e sbocciano amori anche duraturi. Si tessono relazioni esterne e si arriva a costruire una rete cittadina di collegamento, sia studentesco ed interuniversitario sia con organizzazioni e realtà di lotta: con l’Unione Inquilini contro il caroaffitti; con comitati di cittadini dell’Isola Garibaldi contro gli sfratti, con comitati di base di alcune fabbriche (CUB Pirelli). Il rapporto con una cooperativa di immigrati di Cinisello Balsamo (62.000 immigrati su 70.000 abitanti) apre agli studenti uno squarcio sulla realtà delle città/fabbriche dell’area metropolitana e delle difficili e dure condizioni di vita dell’immenso esercito di immigrati, i "negri" del Nord venuti dal Sud. La comunità giovanile di piazza Fontana riesce anche ad appropriarsi dei meccanismi della politica urbanistica, a dire la sua sullo sviluppo della città: «Il piano regolatore prevede di razionalizzare il centro storico in quello che è già: centro di direzione politica, amministrativa,culturale: il cervello della città capitalista. In questo piano non entra tutto ciò che gli è estraneo (per esempio l’Isola Garibaldi, quartiere popolare: a pensionati, artigiani, bottegai, piccoli commercianti, poveri impiegati è imposto lo sfratto, devono andarsene fuori, in periferia, per cedere il posto a uffici ed abitazioni di lusso). Il piano è la razionalizzazione classista della città. E’ la stessa logica della fabbrica: la città divisa come i reparti… il tutto deve ruotare attorno al centro che deve essere stanza dei bottoni e paradiso borghese. I subalterni espulsi: non devono assolutamente abitarci. Se vorranno visitarlo dovranno farlo in religioso rispetto e ne usciranno abbagliati, storditi, intimiditi». (Da un pezzo a Milano non ci sono più fabbriche. Ma questa analisi non mi pare per nulla invecchiata.) Il 1969 è anche l’anno dell’attuazione del decentramento amministrativo di Milano. Entrano in funzione i venti Consigli di zona e per la prima volta si avvia un processo di democratizzazione del potere locale accentrato a Palazzo Marino. E’ il frutto di un decennio di lotte dei comitati di quartiere e di esperienze di partecipazione democratica. La C.S.L fa breccia nella macchina politico-amministrativa della città. Nel febbraio del 1969 il Consiglio comunale approva un ordine del giorno che riconosce legittimità all’occupazione: l’iniziativa degli studenti lavoratori può trovare spazio all’interno del progetto comunale di trasformare l’albergo Commercio in un Centro direzionale e culturale pubblico. Mentre si tiene Piazza Fontana, alla Casa dello studente di Viale Romagna si forma un Comitato di base che gestisce una significativa vertenza sindacale (nell’assenza del sindacato ufficiale) per il miglioramento contrattuale del settore. Un tale livello di lotta sociale sindacale politica e culturale entra in crisi nella primavera del ’69, quando i rappresentanti del potere decidono di passare al contrattacco, mentre si intensificano campagne di stampa di attacco denigratorio contro la C.S.L, ormai stigmatizzata come "covo" di anarchici ed estremisti, drogati e fannulloni. Una delle prime trombe dell’assalto viene suonata dal consigliere comunale del Psi Bettino Craxi, che con un’interpellanza chiede di sgomberare l’albergo Commercio. Comincia l’accerchiamento e l’isolamento, anche attraverso atti di provocazione e di intimidazione. Eppure si resiste. Si vuole raggiungere l’obiettivo di rimanere nel cuore della città, come comunità e centro politico. Non si riesce tuttavia a dare uno sbocco vertenziale ed istituzionale all’esperienza. Pesano le divisioni ideologiche e le diverse linee di condotta politica (basti pensare al settarismo e alla stupida presunzione di voler fare la rivoluzione da piazza Fontana che caratterizzava alcuni partitini marxisti-leninisti). Non aiuta il divario comunicativo tra linguaggio duro (ad esempio, la C.S.L viene definita «pugnale nel cuore della città capitalistica») e realtà. Soprattutto, pesa la volontà politica dominante di stroncare il movimento di crescita democratica del paese e, nella specifica realtà milanese, di cancellare un’esperienza così innovativa e dalle straordinarie potenzialità di partecipazione civile e democratica, in linea perfetta – diremmo ora – con i principi fondamentali di una Carta Costituzionale che, allora, non citavamo. Con inaudita violenza, il 19 agosto 1969, nel colmo dell’estate e delle vacanze, la C.S.L, quasi del tutto vuota, viene sgomberata da plotoni di carabinieri e poliziotti in assetto di guerra. L’edificio viene subito demolito. Si inaugura così la stagione degli sgomberi. Le autorità politiche e amministrative, nazionali e locali, si tolgono la maschera e palesano il volto del potere che ricorre alla forza per "risolvere" i problemi, che usa la rozzezza e la stupidità, non la duttilità e l’intelligenza di coinvolgere i cittadini nelle decisioni. Attenzione: si parla di oggi; si parla di noi. I problemi posti quaranta anni fa dagli studenti sono ancora tutti sul tappeto, irrisolti e incancreniti. Ne cito due. A Milano (e non solo) l’urbanistica ridotta a cementificazione con un pervasivo consumo insostenibile di suolo è sotto gli occhi di tutti. E l’Expo incombe… Milano è la città più cara d’Italia per gli affitti a universitari fuorisede. Sono oltre 50 mila e hanno a disposizione solo 5.956 posti letto, di cui appena 2.756 statali. Piazza Fontana e dintorni (ex teatro Gerolamo, Corsia dei Servi) sono ancora in attesa di una sistemazione decorosa. Demolito il vecchio hotel Commercio, ci sono voluti 40 anni per costruire – quando si dice la fantasia – un nuovo albergo! Superlussuoso e supercaro, ovviamente. Il 1969 in Piazza Fontana si chiude con la strage e con la sua diciassettesima vittima, il ferroviere anarchico Pino Pinelli, «precipitato» in un modo tutto suo dal quarto piano della Questura.

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Rassegna stampa 20-21 gennaio 2009

 Dal manifesto milanese del 21, nazionale del 21 e nazionale del 20 gennaio.


ECOLOGIA · Perché funziona male l’esperimento su due ruote del Comune di Milano

Bike Sharing, il cimitero triste delle bici gialle rimaste al palo
Stefano Bettera
Ma dov’è finito il Bike Sharing? Molti si porranno
la stessa domanda vedendo quei cimiteri delle biciclette ferme nelle
stazioni di parcheggio di cui è stata disseminata Milano, dopo lunghi
mesi di lavori, e molti tira e molla, ricorsi al Tar compresi. La
verità è questa: nessuno o quasi le usa e dopo più di due mesi
dall’attivazione del servizio è quasi impossibile, anche cercandoli
attentamente, vedere in giro per la città ciclisti a cavallo delle bici
gialle e bianche con il logo Bikemi. Le ragioni sono sicuramente
molteplici. Prima fra tutte l’infelice scelta di far partire il
bikesharing a ridosso del Natale, in pieno inverno, con la città
imbiancata da interminabili nevicate, temperature rigide e molte
giornate di pioggia. In questo periodo dell’anno, poi, si sa, tutti
scelgono l’auto per trasportare regali e pacchettini, con buona pace
per la mobilità sostenibile. Se qualche coraggioso si è avventurato per
le strade, si è trattato certamente di un abitudinario del pedale, già
dotato del proprio mezzo, ovviamente, poco interessato ad usare il
nuovo servizio di Atm. Comunque, dopo mesi di dichiarazioni ed annunci
da parte del Comune e di Atm, sulla data di partenza e le dimensioni
del servizio, il 14 novembre c’è stata l’inaugurazione, in piazza San
Babila: disponibili 900 biciclette in poco più di 70 stazioni. Un po’
poco per il progetto originario che di biciclette ne prevedeva 5000,
disseminate in 250 punti. Perché? Silenzio assoluto. Ancora più vaghi i
tempi e i modi per l’allargamento del servizio. C’è da dire che i
recenti tagli di personale effettuati dal Comune hanno penalizzato
soprattutto il settore che si occupa della pianificazione rallentando
notevolmente le opere non considerate «prioritarie». Tutto sospeso a
parte la realizzazione dei grattacieli e buonanotte alla difesa strenua
dell’ambiente contenuta nel dossier di Expo 2015. Tornando al
bikesharing, la primavera del 2009, cioè fra due mesi, dovrebbe essere
il momento del rilancio promesso da tutti. Peccato, però, che di nuovi
cantieri per la posa delle rastrelliere in giro non se ne vedano e
salvo magie non se ne vedranno. Per scoraggiare i ciclisti, soprattutto
i turisti occasionali non interessati ad un abbonamento annuale, l’Atm
le ha proprio pensate tutte: ad oggi, infatti non sono attive le forme
di abbonamento ridotto (giornaliero e settimanale) pubblicizzate sul
sito. È ammesso solo un circuito di carte di credito per il pagamento
online. Soprattutto, non è possibile utilizzare il servizio dopo le 23,
impedendo a chi esce la sera di usare la bicicletta per tornare a casa.
Per tutte queste ragioni e se la percentuale degli utenti continua ad
essere quella di oggi, viene davvero da chiedersi che senso abbia
l’estensione del servizio. Gli ultimi dati ufficiali di Atm di fine
2008 parlano di 2.700 abbonati, oltre 3.000 prelievi e 43.000 visite al
sito web. Su una città come Milano e provincia stiamo parlando di un
risultato che sfiora il fallimento. Soprattutto se comparato con altre
città europee come Lione, Parigi o Barcellona dove sia il numero delle
biciclette che gli utilizzatori sono misurabili a decine di migliaia.
Non si può certo dire che il costo (25 la tessera annuale che dà
diritto all’utilizzo gratuito della prima mezz’ora) sia un deterrente.
Milano, pur non essendo una città di ciclisti come ad esempio
Amsterdam, ha visto crescere in modo esponenziale gli utilizzatori
delle due ruote. Eppure il bikesharing è, nei fatti, l’unico progetto
attuato tra quelli contenuti nel piano per la mobilità ciclistica che
ormai è lettera morta. Sono un miraggio le nuove piste ciclabili, più
volte promesse, anche all’interno di quelle misure a favore della
mobilità sostenibile che il provvedimento Ecopass avrebbe dovuto
sostenere sono un miraggio. Abbiamo visto tutti, a dicembre, come è
andata a finire e quale sia la vera sensibilità che il consiglio
comunale dimostra nei confronti delle proposte, ad essere onesti, anche
coraggiose, dell’assessore Croci. «Questa amministrazione – attacca
Eugenio Galli, presidente di Ciclobby – non ha alcun reale interesse a
trasformare Milano in una città ciclabile e a promuovere una vera
politica della mobilità sostenibile a Milano. La risposta è sempre la
stessa, che non non ci sono i soldi per realizzare nuove piste
ciclabili. Ma le piste ciclabili non risolvono il problema». Conclude
Galli: «Per favorire l’uso della bici basterebbe disegnare le piste
ciclabili sulle strade e farle rispettare da tutti. Ma la verità è che
questa visione non c’è e va contro gli interessi di molti. Un esempio?
Perché nella nuova Stazione Centrale appena inaugurata non è stato
previsto un parcheggio per le bici?» Una buona domanda. Che,
probabilmente, come sempre, non avrà risposta.?


Lezioni DI RAZZA
DISCRIMINATI
A TEMPO INDETERMINATO Alcune considerazioni sulla proposte di riforma
dell’università e della scuola primaria a partire da un saggio dello
studioso W.E.B Du Bois recentemente pubblicato


Enrica Rigo
In
un saggio del 1903 sul ruolo dell’educazione per il riscatto della
«razza Negra» W.E.B. Du Bois scriveva: «Formeremo uomini solo se
assumiamo a oggetto del lavoro nelle scuole la condizione stessa degli
esseri umani – l’intelligenza, la sostanziale solidarietà, la
conoscenza del mondo e le relazioni che gli uomini intrattengono con
esso – è questo il curricolo di quell’Alta Formazione su cui si devono
costruire le fondamenta di una vita reale» (The Talented Tenth, in The
Negro Problem, New York 1903). La presa di posizione dell’intellettuale
e leader afroamericano è accompagnata da un’instancabile polemica
contro qualunque ruolo salvifico del lavoro, implicito nell’opposta
visione impersonificata dall’altro leader nero a lui contemporaneo,
Booker T. Washington, secondo la quale agli studenti dovrebbe essere
insegnato «come guadagnarsi da vivere» (da Up to Slavery pubblicato
originariamente da Washington nel 1901). Per nulla invecchiata, la
riflessione di Du Bois è anzi profondamente in sintonia con l’Onda del
movimento che dalla scuola all’università ha investito, tra Settembre e
Dicembre, l’intero sistema formativo italiano criticando proprio quel
nesso tra formazione e mondo del lavoro che più di un decennio di
riforme ha tentato di far passare come desiderabile, oltre che come
ineluttabile necessità.
Diritti transitori
Prendere come spunto
di riflessione la polemica tra Du Bois e Washington consente di
tematizzare entro uno schema coerente anche un’altra proposta che ha
impegnato le cronache durante le ultime settimane, ovvero quella di
istituire classi «ponte» per i bambini immigrati nelle scuole primarie,
e di discuterla entro la questione più generale dell’accesso degli
stranieri ai diritti di cittadinanza e, in particolare, all’istruzione.
Nella mozione approvata in parlamento su proposta della Lega Nord – e
ingannevolmente ammantata di ragionevolezza politica da una relazione
introduttiva imbottita di dati – salta agli occhi la definizione della
misura quale politica di «discriminazione transitoria positiva». Senza
approfondire nel merito l’abuso con il quale viene utilizzata
l’espressione discriminazione positiva (che pur con delle ambivalenze
affonda le sue radici nella storia del movimento per i diritti civili
americano e nella tradizione della Critical Race Theory) è proprio
l’aggettivo «transitoria» che appare paradigmatico e inquietante. A
essere considerata transitoria non è infatti la discriminazione, che se
fosse introdotta perdurerebbe ovviamente a lungo, ma una condizione
intrinseca alle migrazioni stesse per cui i migranti sono sempre visti
come titolari di diritti pro tempore.
Nel caso specifico,
l’introduzione di un canale di accesso parallelo e subalterno
all’istruzione pubblica sarebbe addirittura giustificata da una duplice
condizione transitoria: quella di essere immigrati e per giunta
bambini. Questa transitorietà «destinata a protrarsi indefinitamente» –
per utilizzare la bella espressione del sociologo algerino Abdelmalek
Sayad – è carica di conseguenze sul piano politico, dal momento che ciò
di cui si è espropriati quando si viene inchiodati alla contingenza
presente è esattamente la possibilità di scegliere il proprio futuro,
come non a caso denuncia anche uno degli slogan del movimento dei mesi
scorsi.
Stanziali per legge
Questo approccio alle migrazioni
acquisisce un significato ulteriore se si considerano alcune linee di
tendenza che emergono dalle più recenti politiche europee e che puntano
a realizzare un modello che la Commissione definisce come circular
migration (una serie di articoli sull’argomento sono reperibili nel
sito www.carim.org/circularmigration). Non si tratta più della
«transitorietà» con la quale è stata gestita in molti paesi europei la
manodopera immigrata nel dopoguerra, per cui i «lavoratori ospiti»
erano incentivati a rientrare nei paesi di provenienza una volta
soddisfatto il fabbisogno di forza lavoro; tanto meno siamo di fronte a
una transitorietà che conduce virtuosamente verso la cittadinanza. Una
delle specificità del sistema della Blue card che la Commissione
europea vorrebbe introdurre per gestire a livello comunitario la
manodopera immigrata «altamente qualificata», e che la differenzia, per
esempio, dalla Green card statunitense, è esattamente quella di non
dare accesso alla cittadinanza né, almeno in prima battuta, alla
residenza permanente.
A ben guardare, è proprio in questo
dispositivo, pensato per attrarre tecnici e ingegneri formati in paesi
di economie emergenti come quella di Cina o India, che si possono
scorgere caratteristiche specifiche e esiti politici di una formazione
improntata a «rispondere in modo effettivo e puntuale alla domanda
fluttuante di lavoratori immigrati altamente qualificati (ed a
compensare le carenze di competenze attuali e future)» (si vedano la
relazione alla proposta di direttiva comunitaria e i lavori della High
Level Conference on Legal Immigration tenutasi a Lisbona nel settembre
2007). Il «premio» che i lavoratori altamente qualificati ottengono con
la Blue card è costituito, infatti, da un alto grado di flessibilità e
mobilità fisica nello spazio europeo, coniugata all’immobilità del
proprio status giuridico – e quindi sociale – di fronte ai diritti di
cittadinanza. In altre parole, l’artificiosa temporalità imposta
dall’ordinamento giuridico alle migrazioni acquisisce, in questo
contesto, il significato di gestione duratura del transito e della
circolazione di manodopera attraverso un dispositivo che differenzia
permanentemente l’accesso dei migranti ai diritti. Nessuno stupore,
quindi, che tra gli obbrobri giuridici già sperimentati dal sistema
possa essere concepita anche una «discriminazione transitoria positiva»
di cui i bambini dei migranti porteranno addosso i segni in permanenza.

Prima di tornare alle splendide pagine di Du Bois sull’eccellenza
che sola può salvare e far progredire le razze, è opportuno introdurre
un ulteriore elemento di riflessione. Per ottenere la Blue card, oltre
a una formazione altamente qualificata testimoniata da un diploma
riconosciuto, sarà necessario presentare un contratto di lavoro con una
retribuzione prevista di almeno tre volte superiore al salario minimo.
Ma che cosa accadrebbe se un illuminato liberale, convinto assertore
dell’autonomia contrattuale, decidesse di assumere come badante
un’astrofisica laureatasi in un’università dell’Unione Sovietica o come
giardiniere un raffinato linguista formatosi in qualche paese del Medio
Oriente e di pagarli il triplo del salario minimo? Simili casi non sono
certo previsti dalla direttiva che, prevedendo accessi separati alla
mobilità, si illude di poter ignorare e liquidare come una massa
indifferenziata di cittadini «illegali» i migranti vivono e lavorano
qui ricevendo anche meno del salario minimo.
Adulatori della mediocrità
La
domanda è certo posta in modo provocatorio, ma è contro l’incapacità di
vedere l’eccellenza che Du Bois dirige il suo sarcasmo più feroce:
ovvero, contro «I ciechi adulatori della Mediocrità che gridano
allarmati: queste sono eccezioni, guardate qui morte, disastri e
crimine – sono loro la regola compiaciuta!». Ed è sempre l’autore del
classico manifesto nero The Souls of Black Folk (New York 1903) a
ribattere che è stata proprio la stupidità di una nazione che ha
sistematicamente umiliato i talenti ad avere fatto della mediocrità la
regola. Una stupidità simile a quella per cui nelle università italiane
il numero di stranieri iscritti è pari al 2,2 %, contro una media Ocse
superiore al 7,5 % e che in paesi come Inghilterra e Germania raggiunge
punte percentuali a due cifre. Un dato, questo, senza dubbio da
imputare alle incredibili difficoltà delle procedure per ottenere un
visto per studio o per convertire un permesso di soggiorno per studio
in lavoro, ma specchio, altresì, dell’inadeguatezza di un’offerta
formativa che pur blaterando di flussi di capitale si ostina a chiudere
gli occhi di fronte a quelli umani. E ancora, la stessa stupidità che
mentre è intenta a proporre accessi subalterni all’istruzione primaria
non si accorge che le occupazioni e le mobilitazioni nelle scuole hanno
coinvolto istituti dove l’incidenza dei bambini stranieri è altissima,
e dove le loro famiglie sono impegnate, accanto alle altre, in difesa
della scuola pubblica. Perché, scrive ancora Du Bois: «Non abbiamo
diritto a stare in disparte in silenzio mentre si gettano i semi di un
raccolto di disastro per i nostri bambini, neri e bianchi».


INTELLETTUALI ISRAELIANI
Appello sul «Guardian»: per il bene della pace, boicottateci


«Noi,
cittadini israeliani, ci appelliamo ai leader europei: usate le
sanzioni contro le politiche brutali d’Israele e unitevi alle proteste
attive di Bolivia e Venezuela». Inizia così l’appello, pubblicato sul
quotidiano britannico Guardian, di una parte della sinistra israeliana.
«Facciamo appello ai cittadini europei: per favore aderite alla
richiesta delle organizzazioni per i diritti umani palestinesi –
appoggiata da oltre 540 cittadini israeliani
(www.freegaza.org/en/home/)-: boicottate le merci e le istituzioni
israeliane; prendete esempio dalle risoluzioni approvate dalla città di
Atene, Birmingham e Cambridge (Usa). Aiutatetici!». Tra i firmatari
dell’appello il prof. Rachel Giora (Tel Aviv University), il prof.
Vered Kraus (Haifa University), la dr. Anat Matar (Tel Aviv
University), il prof. Yitzhak Y. Melamed (John Hopkins University)
Michael Varshavsky e Sergio Yahni.

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Rassegna stampa 8-10 gennaio 2009

Tre articoli dal manifesto dell’8, 10 e 9 gennaio.


GLI STUDENTI
L’Onda suona la carica: «Non molliamo ora»


Protesta davanti Montecitorio
Stefano Milani
ROMA
C’è
fiducia e fiducia. C’è la nona che il governo ha posto ieri per
blindare il decreto Gelmini sull’università, e c’è quella dei ragazzi
dell’Onda convinti, nonostante tutto, che la battaglia non sia ancora
finita. «Siamo appena all’inizio, presto ricominceremo a surfare»,
assicurano. Non inganni, infatti, questo periodo di stasi. Con il
Natale, le feste e il rientro dalle vacanze. Il fatto è che ci avevano
abituato bene, specie dopo la "piena" di novembre con occupazioni,
autogestioni, lezioni all’aperto e assemblee che spuntavano di giorno
in giorno in ogni ateneo dello Stivale. Per manifestare tutto il loro
dissenso contro la legge 133, e più in generale contro l’intera riforma
dell’Istruzione, culminato nell’ultimo grande appuntamento dello
sciopero generale lo scorso 12 dicembre.
Ora si volta pagina. «Siamo
alla fase due», dicono i futuri dottori. Più equilibrata, più
razionale, meno rumorosa forse, ma non per questo meno efficace. Perché
ci sono i momenti dell’inondazione e i momenti della quiete. Che ha
però tutta l’aria di preannunciare presto una nuova tempesta.
L’assaggio ieri, in un sit-in organizzato davanti a Montecitorio.
Dentro, tra gli scranni della Camera, si svolgeva l’ennesima farsa
della democrazia ai tempi di Berlusconi. Fuori i ragazzi, imbavagliati,
a srotolare lo striscione «Criminale è chi distrugge l’università» e
contestare un decreto, votato in fretta e furia, che al suo interno ha
una serie di misure ritenute «inaccettabili». Basti pensare al blocco
del turn over, della possibilità di trasformazione degli atenei in
fondazioni private, dei finanziamenti differenziati in favore degli
atenei virtuosi, dello smantellamento della ricerca già precaria e
sottofinanziata. «Tutto già previsto, tutto a danno della qualità
dell´università», lamentano gli studenti secondo i quali «è chiara la
volontà di far pagare all’università, e al pubblico in generale, la
crisi finanziaria, così all’insegna di un ipocrita discorso sugli
sprechi e la meritocrazia passa la devastazione dell’università e della
ricerca pubblica».
A non andar proprio giù è anche il fatto che
questa votazione, rinviata più volte negli scorsi mesi, avviene in un
periodo "morto", in cui le università sono deserte, e a pochi giorni
dalla polemica «tutta strumentale e provocatoria» costruita dal rettore
della Sapienza Frati e dal sindaco Alemanno, «abituato evidentemente ad
una democrazia in cui la critica e il dissenso di chi non si allinea
sono considerate pratiche criminali». Il sindaco e il rettore «si
sentono come l’imperatore Serse – gridano verso Montecitorio – quando
nella guerra per conquistare la Grecia hanno trovato 300 spartani ad
affrontarli. Noi siamo orgogliosi di essere ben oltre 300». Per Stefano
Zarlenga, uno dei leader del movimento, la tecnica è ben nota: «Alzano
un polverone sulla Sapienza per nascondere il loro vero obiettivo,
ovvero quello di smantellare il sapere pubblico».
Sit-in a parte
c’è da pensare ad un 2009 che, appena cominciato, già si preannuncia
bollente in materia di istruzione. I vari collettivi universitari
cominceranno fin da questa settimana a convocare assemblee in tutte le
facoltà per fare la conta e ripartire. Non è semplice coinvolgere tanta
gente a partecipare, specie adesso con la sessione d’esame che incombe.
Ma è anche vero «che non ci può arrendere proprio ora, dopo i successi
dello scorso autunno», suona la carica Giorgio Sestili del collettivo
di Fisica della Sapienza che ha già ben in mente gli obiettivi a breve
termine. «Il diritto allo studio, la casa dello studente, la battaglia
contro l’aumento delle tasse, la riduzione delle tariffe delle mense e
la possibilità di ottenere più borse di studio». Punti chiari e
precisi, inseriti in quel progetto di autoriforma nato dalla due giorni
d’assise romana, nel novembre scorso, tra le varie facoltà d’Italia
«per riappropriarci dei tempi, dei desideri, degli spazi e dei saperi
nelle facoltà e nelle città». E anche nel mondo del lavoro: uscire dai
confini accademici è, infatti,l’altro grande obiettivo prefisso
quest’anno dall’Onda. L’esercito del surf è tornato.


Studenti in piazza, un corteo pacifico finisce a scontri
Pavlos Nerantzis
Atene
Esattamente
un mese dopo l’ uccisione di Alexis Grigoropoulos il movimento
studentesco greco, per nulla in disarmo, è sceso di nuovo in piazza per
manifestare. Ed è stata, ieri, la prima verifica di ciò che si vedrà
nelle prossime settimane. Migliaia di studenti, docenti universitari e
insegnanti di scuole medie e superiori hanno sfilato pacificamente per
le vie principali di Atene, Salonicco, Patrasso, Chania a Creta. Anche
se i cortei dei giovani comunisti e degli ultras erano separati, al
centro di tutti i cortei, oltre alla questione della riforma dell’
istruzione, la solidarietà al popolo palestinese.
Già negli ultimi
tre giorni, nelle assemblee universitarie, studenti e docenti avevano
deciso di organizzare servizi d’ ordine per proteggere sia gli atenei
che i cortei da elementi estranei. Ieri, comunque, a Propylea, punto di
partenza del corteo, tutti erano uniti contro chi avrebbe potuto
provocare incidenti. La manifestazione era pacifica. Il movimento,
secondo tutte le testimonianze, ha superato con successo la prova. Ma
anche questa volta la polizia ha mostrato i denti. Non a caso due
giorni fa, subito dopo il rimpasto governativo, il messaggio del nuovo
ministro dell’ ordine pubblico era stato chiaro: «tolleranza zero». Gli
scontri sono iniziati a manifestazione conclusa, appena un gruppo di
duecento ultras ha lanciato bottiglie molotov contro i poliziotti.
Tuttavia, «stranamente», le forze dell’ordine hanno attaccato i
manifestanti. E non solo. Giornalisti, cameramen, persino alcuni
avvocati, sono stati malmenati, feriti e trasferiti a forza in
questura. Il centro della capitale in un attimo si è trasformato in un
campo di battaglia. Più tardi è stato reso noto che sono state fermate
33 persone.
Ma il movimento degli studenti è determinato ad andare
avanti. Continua a chiedere giustizia per il compagno assassinato e
un’istruzione qualificata, che garantisca un posto di lavoro non
precario. Nello stesso tempo le organizzazioni studentesche stanno
discutendo nuove forme di lotta e prendono le distanze da atti di
violenza, dopo gli ultimi attentati con armi da fuoco contro i
poliziotti (uno di loro è ancora ricoverato in gravissime condizioni).
E respingono con determinazione il tentativo dell’ estrema destra e di
una parte dei conservatori di incriminare il movimento, collegandolo a
gruppi terroristici. «Le manifestazioni devono essere proibite, se i
manifestanti non sono capaci di governarle» ha sottolineato il
portavoce del partito nazionalista, Laos, presentando a questo
proposito una proposta in parlamento. Sempre in parlamento, il prossimo
23 gennaio, si svolgerà il dibattito sulla riforma dell’istruzione.
Intanto,
ieri è stato diffuso il risultato della perizia sull’ uccisione di
Alexis. Secondo gli inquirenti, il poliziotto ha sparato ad altezza d’
uomo. La pallottola, ha trovato prima un ostacolo di cemento, a pochi
passi da Alexis e sulla stessa traiettoria, poi ha raggiunto il petto
del giovane.


GRECIA Il premier Karamanlis rimpasta il
governo: trasferito il ministro dell’istruzione, licenziato quello
dell’economia e alcuni corrotti

Atene, si riaprono le scuole e il movimento degli studenti torna in piazza


Pavlos Nerantzis
ATENE
Con
problemi che in qualsiasi momento potrebbero provocare elezioni
anticipate, è cominciato l’ anno nuovo per Kostas Karamanlis. Oltre
alla crisi economica e agli scandali di corruzione, il premier deve
fare i conti con il movimento studentesco, che già oggi, primo giorno
di apertura delle scuole, scende in piazza, e con un’ opposizione che
non perde occasione per criticare aspramente l’ operato dei
conservatori. Su questo sfondo viene letto il rimpasto governativo,
annunciato mercoledi scorso. Dalla lista dei nomi che costituiscono il
nuovo gabinetto manca quello del ministro dell’ economia e braccio
destro del premier, Jorgos Alogoskoufis, criticato addirittura da
esponenti dello stesso partito governativo per mancanza di sensibilità
nei confronti degli strati sociali più deboli. Trasferito a un altro
ministero il ministro che fino a ieri era dell’ istruzione, Epaminondas
Stylianidis, considerato troppo duro nei confronti dei giovani, mentre
sono stati allontanati vice ministri immischiati nello scandalo del
monastero Vatopedi, che rischiano di essere processati per corruzione.
Karamanlis cerca di cambiare le carte in tavola per ottenere di nuovo
il consenso sociale, in calo soprattutto dal dicembre scorso, dopo l’
uccisione del giovane Alexis Grigoropoulos da parte di un poliziotto e
le mobilitazioni di massa degli studenti che hanno trasformato la
capitale e altre città in teatri di aspri scontri con la polizia.
Ma,
a sentire l’ opposizione, Karamanlis non è affatto disposto a cambiare
rotta e difficilmente riuscirà a cambiare il clima. Il nuovo ministro
dell’ economia, Jannis Papathanassiou, vice ministro fino a ieri,
cammina sulla stessa rotta neoliberalista del suo predecessore e il
ministro dell’ istruzione, Aris Spiliotopoulos, «può avere il look del
giovane, ma la riforma dell’ istruzione non è un affare mediatico». Il
buco nero di 4,41 miliardi di euro nella finanziaria 2009 sarà
difficilmente coperto, se non con nuove tasse, e le spese previste per
l’ istruzione appena arrivano al 3% del pil. Tutto ciò nel momento in
cui secondo le statistiche aumenta il numero dei ragazzi, soprattutto
figli di famiglie di migranti, che abbandonano la scuola. La
percentuale è arrivata al 45%.
Una prima verifica su ciò che
seguirà nelle prossime settimane si vedrà oggi, giorno in cui i
sindacati degli insegnanti e degli studenti manifestano ad Atene. Già
durante le feste natalizie migliaia di giovani hanno sfilato ad Atene e
Salonicco contro il massacro di Gaza, esprimendo la loro solidarietà ai
palestinesi. Il clima non è affatto calmo. Gli attacchi con gas
lacrimogeni, i maltrattamenti e i fermi di pacifici dimostranti sono
all’ ordine del giorno, mentre a livello politico si discute l’
abolizione del cosiddetto asilo universitario – entrato in vigore dopo
la caduta dei colonelli negli anni ’70 – che non permette alla polizia
di intervenire dentro gli atenei. Durante le feste gli ultras hanno
attaccato con ordigni incendiari filiali di banche, veicoli e agenti
della polizia. A preoccupare è l’uso, per la prima volta dopo tanti
anni, di armi da fuoco. Il timore tra gli inquirenti e il mondo
politico è che si stia formando una nuova generazione di gruppi armati
dopo lo scioglimento e gli arresti dei membri dell’ organizzazione
terroristica «17 Novembre». All’ inizio della settimana c’è stato un
attentato contro due poliziotti di pattuglia al ministero della
cultura, vicino al quartiere di Exarchia, teatro delle proteste di
dicembre. Uno dei poliziotti è rimasto gravemente ferito. I suoi
colleghi hanno sfilato per le strade di Atene. Finora la polizia ha
arrestato una settantina di anarchici, ma le indagini brancolano nel
buio.

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Riflessioni sull’onda e sulla ricerca dal manifesto

Qualche riflessione dal manifesto del 9 e dell’11 gennaio 2009 (qualche giorno fa abbiamo pubblicato l’articolo cui Flores d’Arcais qui risponde, sull’interessante numero speciale di MicroMega di cui consigliamo fortemente l’acquisto).


L’AMBIVALENTE E AMBIGUA CONDIZIONE STUDENTESCA
Un’onda VI SEPPELLIRÀ

Una risposta del direttore di «MicroMega» agli articoli che hanno presentato la rivista su queste pagine. Dal ruolo dell’università alla contingenza che caratterizza la figura dello studente. Temi proposti per una discussione sulle caratteristiche, le culture politiche del movimento e dei suoi possibili rapporti di alleanza con le altre mobilitazioni «repubblicane» della società civile
Paolo Flores d’Arcais
Francesco Raparelli e Augusto Illuminati sono stati prodighi di elogi per il numero speciale di MicroMega Un’onda vi seppellirà, ma hanno trovato del tutto sbagliato, e perfino contraddittorio con il resto del volume, il mio editoriale di apertura «Rivolta o ideologia» (il manifesto del 31 Dicembre 2008). Spero che il loro apprezzamento per il numero (della cui realizzazione il merito va in primo luogo a Emilio Carnevali e Cinzia Sciuto), così caldo e motivato, ne aiuti la circolazione tra gli studenti e sia il nostro piccolo contributo alle tenuta, al rilancio, alla crescita del movimento.
Quanto al merito dei nostri dissensi, che non vanno diplomaticamente ridimensionati ma certamente chiariti: la questione principale è l’analisi della figura sociale dello studente nell’ambito di una più generale analisi delle nuove figure produttive – e sfruttate – (il «general intellect»), del capitalismo postfordista.
Ora: l’università è anche il luogo di formazione di tutte le forme di lavoro precario che caratterizzano il capitalismo attuale, e lo studente è dunque anche il precario delle nuove forme di sfruttamento e dominio (per usare il linguaggio standard).
Anche, ma non solo. Perché l’università è anche il luogo di riproduzione di tutte le figure sociali dominanti e collaterali e domestiche dello sfruttamento. È insomma anche (e magari soprattutto) il luogo di riproduzione dell’establishment. Dei «padroni» e manager e di tutti gli apparati di repressione, controllo, mediazione, consenso, che mantengono in vita il sistema. Non riconoscere come essenziale questa funzione dell’università significa rovesciare ogni materialismo e immergersi nel più puro idealismo sociologico (una contraddizione in termini). Significa immaginare uno sfruttamento senza sfruttatori, un dominio senza dominanti, o far discendere l’establishment dal cielo.
Se dunque l’università è il luogo in cui si riproducono tutte le figure sociali, contraddittorie e antagoniste, e non solo quelle multiformi del precariato «general intellect», la figura sociale dello studente risulterà strutturalmente ambivalente. E in più sensi.

Tra precariato e establishment
Socialmente ci saranno studenti che (per semplificare) diventeranno establishment e studenti che diventeranno «general intellect», secondo linee che in larga misura replicheranno i ruoli delle famiglie di origine, ma in misura significativa segneranno invece mobilità da una classe all’altra (sempre per usare un linguaggio standard: e quasi sempre dalla sfruttata all’establishment), mentre la cultura che verrà trasmessa, sia per i contenuti che per i metodi, sarà un intreccio di addestramento a questi ruoli e di sapere critico capace di metterli in discussione, e si potrebbe continuare. Tutte queste ambiguità e ambivalenze passano anche, potenzialmente, all’interno di ogni singolo studente, diviso tra prospettive di integrazione/carriera nell’establishment, forme diverse di sfruttamento, ecc.
Ecco perché una analisi meramente «produttivistica» della figura sociale dello studente mi sembra quanto di più idealistico vi sia, e mi sembra ripeta, quasi alla lettera, mutatis mutandis, lo stesso errore che veniva fatto dalle componenti «operaiste» del movimento studentesco del ’68. Dell’altro ideologismo, di matrice più classicamente marxista-leninista, che Raparelli stesso critica, non mi sono occupato perché non mi sembra abbia possibilità di effettiva influenza, dato il carattere francamente arcaico delle analisi.
Se dunque lo studente è una figura sociale ambivalente, perché transitoria, la scelta etico-politica di ciascuno, e del movimento nel suo complesso, diventa elemento cruciale per la sua tenuta e il suo futuro (l’elemento di «soggettivismo», sempre per usare il linguaggio standard: rivoluzionario o riformatore che tale «soggettivismo» sia,). Del resto, non si capirebbe altrimenti perché settori consistenti del mondo studentesco non partecipino alle lotte, e anzi le combattano, e si schierino politicamente a destra. Per dirla brutalmente, «sfruttato» e «sfruttatore» nello studente potenzialmente convivono, poiché convivono possibili futuri (benché le chance per ciascuno singolarmente preso siano tutt’altro che eguali, come è ovvio).

Le asimettrie di potere
Se si guarda perciò materialisticamente allo studente e alla sua ambivalenza, e all’ambivalenza del sapere che nelle università viene trasmesso, ne scaturiscono conseguenze (problematiche) sia per i rapporti con altre opposizioni repubblicane nella società sia per la questione della «autoriforma» dell’università dal basso.
Della «autoriforma» parte essenziale dovrebbe già essere la «autoformazione», che Augusto Illuminati considera diversa in linea di principio dai controcorsi del ’68 (imputando a Carnevali e Sciuto di aver invece evidenziato la continuità tra i due fenomeni).
Ora, «autoformazione» non può essere una sorta di parola magica, un abracadabra che al momento di realizzarsi tecnicamente o fallisce o si riempie di modalità e procedure che ne vanificano gli intenti. Ma la formazione contiene sempre un elemento irriducibile e ineludibile di trasmissione del sapere. Potrà avvenire in forme pedagogiche e di «potere» ex-cathedra radicalmente diverse dalle attuali (esistono elaborazioni sull’argomento affascinanti, soprattutto di matrice anarchica, dagli asili di infanzia all’università), ma l’elemento di trasmissione, e relativa asimmetria tra docente e discente, sussisterà, quali che siano le forme nuovissime inventate. Ma sono proprio queste forme che mi sembra non vengano analizzate affatto, per la difficoltà di affrontare la pietra di inciampo dell’asimmetria del sapere. E del significato diverso che nei vari rami tale asimmetria può avere (in fisica delle particelle e in etruscologia è diversa che in «Storia del reality», che prima o poi diventerà un corso).
La formazione, insomma, potrà essere più o meno critica, più o meno partecipata e seminariale, più o meno «cattedratica», ma non potrà mai essere «auto», pienamente democratica, come una grande repubblicana, Hannah Arendt, ha spiegato infinite volte. Chiarire in che modo ciò si differenzi davvero dai controcorsi, in che modo implichi pedagogie nuove della trasmissione del sapere, in che modo debba cambiare il ruolo del docente, che strutturalmente non sarà mai eguale allo studente se non in una retorica che si accontenta di parole, è quanto il movimento ancora non ha fatto (semmai lo ha cominciato, ma soprattutto tra i ricercatori e i dottorandi di alcune facoltà scientifiche).Vedo insomma il rischio, micidiale per il movimento, che «riconquistare democraticamente le grandi istituzione del welfare» rimanga una formula suggestiva, un appagamento emotivo, non uno strumento materialistico di lotta.

I fronti di lotta
Del resto, realizzare una riforma non è neppure il compito essenziale di un movimento di studenti. Se non si trasformano assetti cruciali della società, e in essi della ricerca, dell’informazione, del diritto, ecc., il destino dello studente sarà sempre di diventare in larga misura un precario, in altra misura (anch’essa assai larga) un membro dell’establishment nei suoi vari settori e livelli gerarchici, e solo in casi privilegiati, e socialmente poco rilevanti (epperciò tollerati dal sistema), un lavoratore che nella sua stessa attività lavorativa non si troverà scisso dai suoi «diritti del cittadino» e dall’esercizio della sua porzione di «sovranità popolare», solennemente ricamati nella Costituzione ma calpestati e vilipesi nella sfera della vita reale (e sempre più anche in quella «astratta» della politica).
Ecco perché io ritengo essenziale, per il futuro del movimento, che sappia collegarsi-a, ri-animare, suscitare, iniziative di lotta in altri settori e ambiti tematici (altromondisti, girotondi, piazzenavone, ecc., senza dimenticare la laicità, che il nuovo invito del rettore al Papa rende di stringente attualità).
Sono solo accenni, che si prestano ad essere equivocati, e per approfondire i quali «MicroMega» ha avanzato al movimento la proposta, proprio tramite uno degli autori degli articoli, Francesco Raparelli, di una discussione pubblica all’Università. Che mi auguro avvenga nel vivo di una lotta di nuovo in corso.


UNIVERSITÀ
L’anomalia ancora da costruire

Benedetto Vecchi
L’onda si forma, cresce e poi rifluisce. È un fatto noto, ma se è anomala può infrangere ogni modello di analisi. E il movimento contro le proposte del ministro Mariastella Gelmini ha subito dichiarato la sua anomalia. Anche quando sembrava che avesse lasciato il posto alla risacca, ha mandato a dire che non voleva essere un movimento dipendente dalle azioni del potere politico, sia che vestisse le divise istituzionali che gli abiti di un qualche partito, sia che fosse presente o non in Parlamento. E quando ha pacificamente paralizzato, almeno a Roma, cioè nella capitale, sede del parlamento, la vita pubblica già affermava che quella invasione della città era solo un assaggio della sua potenza.
Ma poi la parola è passata a Mariastella Gelmini, che, se su YouTube invitava al confronto, nelle stanze segrete del ministero stilava pessimi decreti attuativi della riforma della scuola primaria e modificava il decreto legge sull’Università. Ieri, infine, il voto in Parlamento che ha approvato la nuova versione.
Sulle modifiche introdotte non c’è molto da dire. Gli ottimisti potrebbero dire che è solo maquillage, i pessimisti che sono peggiorative. Più realisticamente si può dire che il ministro rompe ogni indugio e mette nero su bianco un tassello importante nel progetto di una differenziazione dei finanziamenti alle università, al fine di creare centri di eccellenza e università di «secondo piano». E che uno dei criteri portanti è dato dalla riduzione dei costi del personale. Una logica aziendalista denunciata nei mesi scorsi, ma le modifiche introdotte, stabilendo che sia il bilancio a stabilire quali gli atenei meritevoli e quelli no, la dicono lunga sullo stile di pensiero attorno alla formazione di questa compagine governativa.
Quando dal governo giunse la dichiarazione che il decreto non sarebbe stato rinnovato per presentare una proposta organica di riforma, in molti scrissero che se non era una vittoria piena le mobilitazioni erano riuscite almeno a mettere in difficoltà Silvio Berlusconi. Ma i decreti attuativi e il voto di ieri mettono in evidenza una strategia del governo, che dovrebbe far riflettere. Il governo, infatti, di fronte al conflitto sociale ha scelto una precisa strategia. Si dice sempre disposto al dialogo, sceglie un basso profilo rispetto alle manifestazioni di piazza, ma poi quando le mobilitazioni perdono intensità riprende il suo cammino come se nulla fosse accaduto. Un cambiamento di strategia rispetto alla precedente esperienza governativa di Silvio Berlusconi, quando il cavaliere mostrava il volto duro del decisionista che non indietreggiava di fronte a nulla.
La prola torna adesso all’Onda per dimostrare la sua anomalia. Vuol creare una propria agenda politica senza diventare una variabile dipendente di nessuno. Non vuole cedere alle lusinghe di chi la corteggia; sostiene semmai che i suoi soli e naturali alleati sono gli altri movimenti sociali. Una strategia espositiva delle proprie ragioni che paga in termini di consenso, perché mostra una capacità autonoma di elaborazione. Ma proprio perché vuole essere una forma specifica dell’agire politico, l’Onda è costretta a misurarsi con i nodi della politica. La costruzione del consenso, ovviamente, ma anche la necessità di dare continuità alla propria azione. Assieme a una lettura dei rapporti sociali vigenti. E di conseguenza il nodo del potere e delle alleanza da stabilire. Se la scelta è di non delegare alle forze politiche la rappresentanza delle proprie proposte è con questo ordine del discorso che si misura un sempre un movimento sociale
Il filosofo francese Alain Badiou ha scritto che la politica si può pensare solo in casi eccezionali, quando cioè si crea una rottura nel tempo lineare dell’esercizio del potere. Solo in questi casi, afferma Badiou, la politica può essere pensata. È difficile sostenere che la realtà italiana sia in questa situazione. Eppure l’Onda ha accumulato sapere critico, una vision innovativa sul tentativo di trasformare il sistema della formazione in una struttura di servizio delle imprese.
È finora sfuggita anche alla tentazioni di trasformarsi in un movimento che privilegia una single issue, lasciando così ad altri il compito di trovare una praticabilità politica di quella «questione». Non riesce però a pensare politicamente la parzialità da cui guarda la totalità dei rapporti sociali. Urgenza data anche da una crisi economica che sta radicalmente e ferocemente cambiando il panorama sociale e le caratteristiche del capitalismo che sin qui è stato variamente chiamato neoliberista, postfordista o cognitivo.
Nei mesi scorsi l’Onda ha mandato a dire che è fatta di uomini e donne che non «mollano mai»; che l’Università è diventata un nodo importante nella produzione della ricchezza e che i progetti di riforma vogliono legittimare il fatto di trasformarla in attività direttamente produttiva. Tematiche e attitudini al conflitto che devono fare i conti con una politica istituzionale che fonda la sua legittimità nell’investitura avuta nel voto elettorale. Ma se si vuole incrinare il monopolio della decisione politica occorre che quei temi e attitudini diventino discorso programmatico. Innovando dunque le forme di agire politico e di organizzazione, evitando così i vicoli ciechi del passato.
L’anomalia è uno stile di pensiero e di agire politico da sperimentare. Anche perché altrimenti un’onda è destinata sempre alla risacca. L’anomalia va quindi inventata in una pratica culturale e politica dove nulla è dato per scontato. Neppure quello che sembrava acquisito.


SAGGI
Il male oscuro della ricerca scientifica
«La guerra segreta contro il cancro» di Devra Davis

Luca Tomassini
DEVRA DAVIS, STORIA SEGRETA DELLA GUERRA CONTRO IL CANCRO, CODICE EDIZIONE, PP. 459, EURO 35
A partire dagli anni Sessanta, nel tentativo di «spiegare» la scienza, molti studiosi abbandonarono l’epistemologia per dedicarsi alla sociologia. Oggi, da molti degli eredi (o presunti tali) di quella svolta un fatto è considerato scientificamente accertato se lo è dagli «esperti» del settore, gli scienziati appunto, magari dopo confronto aperto e democratico. Qualcuno si era persino spinto nel piccolo della «vita di laboratorio» per fare l’etnologia del ricercatore. Ebbene, le stanze occulte delle quali si parla in Storia segreta della guerra contro il cancro della studiosa americana Devra Davis non sono quelle dove ufficialmente si produce conoscenza ma quelle del potere e del denaro. Dove la scienza è comprata e venduta, occultata o trasformata in evento rivoluzionario. I luoghi quindi in cui si controlla e determina la direzione che prenderà la ricerca, nella più completa (e complice) inconsapevolezza della maggior parte degli stessi scienziati.
Epidemiologa di fama internazionale, ex direttrice dell’Ufficio di studi ambientali e tossicologici dell’Accademia delle scienze statunitense, Davis è attualmente alla testa del Centro di oncologia ambientale dell’università di Pittsburgh, dal quale prosegue la battaglia di una vita contro il male del secolo e i molti suoi complici. Le sue armi non sono però farmaci o tecnologie di diagnosi sempre più avanzati e costosi, ma analisi statistiche della morte chiamate epidemiologia. Il suo affermarsi a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, spiega Davis, ha costituito un potente e insostituibile strumento per dimostrare (a posteriori) la stretta correlazione tra inquinamento ambientale, produzione industriale e la vera e propria epidemia di cancro nella quale siamo immersi. La sua trasformazione in tempi recenti in strumento per mettere fuori gioco qualunque valutazione scientifica di rischi sanitari è una vicenda emblematica che fa da sfondo all’intero libro.
Sono passati più di trent’anni da quando Nixon, per far dimenticare la sconfitta dell’esercito americano in Asia, lanciò la sua famigerata guerra contro il cancro. Enormi finanziamenti furono concessi per afferrare il sogno di una «cura definitiva». Macchine e sostanze chimiche per contrastare gli effetti indesiderati della produzione di macchine e sostanze chimiche, il circolo virtuoso dell’economia. Oggi sappiamo che nonostante molti indubitabili successi, i principali risultati sono stati in realtà ottenuti grazie alla prevenzione. Ovvietà tutt’altro che ovvie, e le oltre quattrocento pagine del libro sono un tentativo di spiegare come sia stato possibile che fatti ragionevoli e peraltro molto bene accertati abbiano potuto essere ignorati per decenni (e tuttora) dalle autorità.
La risposta getta una luce sulla natura della ricerca scientifica e del suo posto nella società capitalistica, sulla debolezza morale di tanti dei sui protagonisti, sull’oscuro intreccio tra poteri pubblici e privati che tanto ha condizionato lo sviluppo del welfare state negli Usa ma non solo. Davis si concentra in particolare sulla vita dell’accademico Robert Kehoe, tra i padri della moderna oncologia statunitense, studioso serio e affidabile per tutta la vita sul libro paga della DuPont. Con i gradi di capitano dell’esercito degli Stati Uniti fu spedito nella Germania distrutta dai bombardamenti per raccogliere e occultare i frutti delle avanzatissime ricerche dei colleghi tedeschi. Quel materiale non è mai stato pubblicato, Kehoe e i suoi potenti padroni lo hanno sottratto alla scienza e soprattutto al pubblico. Il suo esempio è stato ampiamente seguito, e l’Europa pretende di fare oggi ancora di più: il suo programma «Reach» assegna infatti alle imprese l’incarico di valutare i rischi delle sostanze chimiche!
Altra figura centrale della storia è quella del britannico Sir Richard Doll, tra i fondatori della moderna analisi statistica e noto per le sue dotte smentite delle evidenze di un legame tra cancro ai polmoni e fumo. Non ha mai reso note le cospicue parcelle che intascava dalle industrie del tabacco. Ma Doll è stato soprattutto un grande ispiratore di una strategia tutta fatta di scienza seria e severa, capace di trasformare il dubbio di chi meglio vuole conoscere in arma letale contro ogni evidenza avversa a chi possa permettersi di pagare (anche nuove ricerche, non solo tangenti). Fino all’assurdo di rifiutare le tradizionali evidenze sperimentali (tumori indottti su animali) della cancerogenicità di molte sostanze come prove per adottare misure cautelative. In fondo, se non siamo assolutamente sicuri che una sostanza sia pericolosa per gli esseri umani non c’è motivo per vietarla, e per esserlo è necessaria una schiacciante evidenza epidemiologica. Che per sua natura arriva a cose fatte e persone decedute, spesso addirittura quando i prodotti incriminati hanno esurito il loro ciclo di vita sul mercato. Non si tratta di questioni di principio, ribadisce Davis, ma di sentenze della Corte suprema degli Stati uniti come la tristemente nota «Daubert contro Merrel Dow Pharmaceuticals» del 1993.
Un quadro davvero desolante, che dovrebbe far riflettere tanto gli entusiasti sostenitori del «privato controllato» nel campo della sanità quanto quelli della triade miracolosa valutazione-merito-efficienza. La stessa Davis, però, sembra cadere in un analogo equivoco. La sua proposta è una sorta di Tribunale per la giustizia e la riconciliazione sullo stile di quello che ha portato il Sudafrica fuori dall’apartheid. Il ragionamento è semplice. Chiedere alle imprese di pagari i danni equivarrebbe a condannarle a morte, meglio allora che riconoscano le loro colpe e in cambio (oltre per carità a qualche risarcimento) forniscano tutte le informazioni e ricerche in loro possesso. Davis è una sostenitrice di Obama nonché esponente di spicco dell’associazione di Al Gore e magari con loro avrà la sua rivoluzione. Ma forse, per chi ha a disposizione Veltroni e D’Alema, l’Onda è una soluzione più realistica.

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L’Onda per il «boicottaggio accademico di Israele», ma i docenti dicono no

Dal manifesto del 16 e 17 gennaio 2009.

Ricordiamo anche un interessante documento scritto nel 2005 dal movimento che era sorto in seguito alle proteste contro i provvedimenti del ministro Moratti: Scienza etica.


L’ONDA
«Non collaborare con atenei israeliani»

Un appello ai ricercatori italiani affinché
interrompano le collaborazioni con le istituzioni di ricerca pubbliche
e private israeliane e in generale con quelle legate all’industria
bellica. A farlo è l’assemblea degli studenti dell’Onda del
Dipartimento di fisica della Sapienza di Roma, al fine di «sostenere la
pressione sociale internazionale, che chiede la fine degli attacchi di
Israele ai territori palestinesi». Il documento, elaborato dopo giorni
di discussione degli studenti sui fatti di Gaza, chiede inoltre «alla
comunità scientifica e alle istituzioni di ricerca israeliane di
pronunciarsi contro le operazioni belliche in corso e le politiche di
guerra del governo israeliano». L’appello sostiene che «l’attuale
situazione del conflitto è solo il tragico compimento di anni di
politiche di isolamento della società palestinese» e che «l’attacco
totale alla vita del popolo palestinese passa anche dalla chiusura di
diverse università palestinesi e dall’impedimento pratico allo
svolgersi di una normale vita accademica senza che nessuna istituzione
accademica israeliana si sia mai pronunciata a riguardo».
Per aderire: smilitarizziamolaricerca@gmail.com


UNIVERSITÀ Uniti contro la venuta del papa alla
Sapienza ora studenti e professori si dividono su come reagire alle
bombe su Gaza

L’Onda per il «boicottaggio accademico di Israele», ma i docenti dicono no
Stefano Milani
ROMA
«Boicottaggio delle università israeliane».
La parola d’ordine riecheggia da giorni tra i corridoi e nelle aule del
dipartimento di Fisica della Sapienza di Roma. Cuore pulsante dell’Onda
studentesca e da dove, nel gennaio dello scorso anno, partì quella
famosa lettera, firmata da 67 tra docenti e scienziati, all’indirizzo
di papa Ratzinger ospite sgradito all’inaugurazione dell’anno
accademico. Allora tutti erano d’accordo, docenti e studenti. Adesso le
divergenze si fanno sentire. Niente questioni di laicità stavolta, in
ballo c’è la posizione da tenere sui fatti di Gaza. Anzi, come
rispondere a quei fatti. «Smilitarizziamo la ricerca, stop al massacro
a Gaza». Con questo striscione un gruppo di studenti ha fatto ieri
irruzione all’interno del dipartimento di Fisica dell’università La
Sapienza di Roma, per chiedere di «interrompere ogni collaborazione con
tutte le istituzioni di ricerca israeliane», in particolare «quelle
legate all’industria bellica» e «per sostenere la pressione sociale che
chiede la fine degli attacchi in Palestina».
E così, al grido di
«Noi la guerra non la facciamo», gli studenti hanno interrotto una
lezione tenuta dal direttore del dipartimento di Fisica, Giancarlo
Ruocco, per chiedere una posizione ufficiale sul «massacro in atto in
Palestina». I ragazzi chiedono «l’immediata interruzione delle
collaborazioni con le istituzioni di ricerca israeliane» e nello stesso
tempo chiedono «alla stessa comunità scientifica di Israele di
pronunciarsi contro le operazioni belliche in corso». Ma il docente,
che è responsabile dal 2005 di un progetto sulla fotonica in
collaborazione con tre atenei israeliani tra cui quello di Tel Aviv, di
boicottaggio non vuole sentir parlare. «Condanno la guerra ma non
fermeremo la collaborazione che abbiamo con alcune università
israeliane». Il motivo? «Non possiamo sapere quale futuro possano avere
queste applicazioni, se andranno in una direzione positiva o verso
comportamenti disdicevoli come quelli bellici», ma «tutti i prodotti
della nostra ricerca saranno sempre pubblici e non coperti dal segreto
del risultato».
Il massimo che Ruocco è riuscito a promettere ai
suoi studenti è che mercoledì prossimo, durante il consiglio di
dipartimento, verrà votato un documento di condanna contro le bombe su
Gaza. Promessa che però non soddisfa del tutto i ragazzi dell’Onda che
continueranno la loro battaglia a partire dalla manifestazione di oggi.
«L’attacco totale alla vita del popolo palestinese – si legge nel loro
appello – passa anche dalla chiusura di diverse università palestinesi
e dall’impedimento pratico allo svolgersi di una normale vita
accademica. Tutto questo è accaduto senza che nessuna istituzione
accademica israeliana si sia mai pronunciata a riguardo. Per questo
chiediamo ai ricercatori israeliani non solo di prendere parola, ma di
mettere in pratica azioni dirette che inceppino il meccanismo bellico».

 

 

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Tutti al presidio contro gli assalti del padrone

Dal manifesto del 15.
Hanno partecipato al presidio anche alcuni studenti di CittàStudi. 


 


Mariangela Maturi
MILANO
Altra giornata campale per i lavoratori della Innse
Presse di Milano. Quarantanove operai contrastano la chiusura della
loro fabbrica con un presidio permanente. Ieri hanno dovuto difenderla
dal padrone che ancora una volta ha mandato i camion per prelevare i
macchinari.
Nell’area ex-Maserati gli stabilimenti hanno chiuso i
battenti uno dopo l’altro. La Innse produceva presse con macchinari in
ghisa costosissimi. Il proprietario, Silvano Genta, di formazione
rottamatore, era stato presentato come «il salvatore della Innse» due
anni fa. Lo scorso giugno ha deciso di chiudere, vendere le presse e
guadagnare milioni di euro, lasciando il terreno alla speculazione
edilizia affamata di nuovi progetti in vista dell’Expo. Il paradosso è
che la produzione andava bene. Per tre mesi i lavoratori hanno
continuato a lavorare autogestendo commesse, produzione, mensa e turni.
Questo autunno sono stati buttati fuori e hanno piazzato un camper
davanti alla fabbrica per presidiare il posto di lavoro giorno e notte.
Il 18 dicembre Genta aveva già tentato di varcare i cancelli per
prelevare i macchinari. Ieri mattina, alle 6, ci ha riprovato, ma è
stato nuovamente respinto da 150 persone.
La storia di questa
resistenza è nata in sordina, neppure sindacati e istituzioni speravano
che si potesse far qualcosa. Adesso persino la Regione Lombardia cerca
di trovare un accordo. Anche perché sin da giugno un possibile nuovo
acquirente c’era, la ditta Ormis.
Ieri mattina l’assessore
all’Istruzione della Provincia Giansandro Barzaghi e il consigliere
provinciale Luca Guerra si sono incatenati ai cancelli per impedire lo
smantellamento della fabbrica. Nel frattempo, il vicepresidente della
Regione, Gianni Rossoni, ha ufficializzato l’intenzione di incontrare
le forze in gioco martedì prossimo. Nell’attesa non si tocca nulla.
«Martedì
sarà tutto da costruire – ha dichiarato Luciano Muhlbauer, consigliere
regionale del Prc – è da vedere quale atteggiamento deciderà di tenere
il Comune, fino ad ora di fatto assente». Concorda Piero Maestri,
consigliere provinciale di Sinistra Critica: «Le istituzioni devono
risolvere la situazione di una fabbrica che muore per una
speculazione».
Dietro la chiusura della Innse ci sono molti
interessi. Per la Aedes, società titolare del progetto di
riqualificazione della zona, si tratta di una miniera d’oro. Stando al
sito della Aedes, si scopre che una piccola quota (il 2%) è di Silvio
Berlusconi. Sorpresa. «Riflettendoci – constata Piero Maestri – chissà
cosa dice il premier sulla fine di una società produttiva, viste le sue
dichiarazioni sulla crisi…». Fatto sta che ora altri lavoratori delle
fabbriche in crisi si sentono molto più vicini ai colleghi della Innse.

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